Gli invisibili
Guerre, emergenze o scandali visti dalla prospettiva di chi non appare mai nei media mainstream
La scena che nessuno filma
L’aria è densa di polvere e fumo. In una strada di Pristina un gruppo di bambini gioca tra macerie annerite che sanno di guerra e povertà, con un pallone sgonfio che tenta goffamente di rimbalzare sull’asfalto crepato. A pochi metri, Enver osserva in silenzio. È un uomo di ventisei anni, indossa una camicia consumata e porta sempre lo zaino in spalla: dentro c’è un dizionario logoro e un vecchio taccuino. È lui che traduce per i giornalisti stranieri, li accompagna nei quartieri più pericolosi, li protegge dai posti di blocco. Sa come parlare con i militari, come rassicurare le famiglie diffidenti. Sa anche che, quando le telecamere si spengono e gli inviati prendono l’aereo per tornare nella parte buona d’Europa, lui resterà li, con la stessa paura, ma senza microfoni. “Non mi leggerai mai in un giornale”, dice sorridendo amaro. “Io sono la parte che tagliano nel montaggio”.
Oltre il frame
Ogni crisi ha i suoi protagonisti ufficiali: i generali che parlano in conferenza stampa, i leader che stringono mani, i soccorritori immortalati nell’atto eroico. Ma accanto a loro, o meglio dietro di loro, ci sono i corpi che non entrano nell’inquadratura.
Zainab, madre di tre figli, durante le settimane di bombardamenti ha cucinato per quaranta persone in una casa senza finestre, arrangiandosi con pentole trovate tra le macerie. Non ha mai rilasciato un’intervista. Zainab ha trent’anni anni e vive nella Beirut che non conta, dove non ci sono banche o locali eleganti, in un quartiere densamente popolato e colpito chirurgicamente dai missili. La sua casa si trova al quarto piano di un vecchio edificio di cemento, che ora ha le finestre rotte, crepe sui muri, e segni evidenti di una guerra che non ha chiesto, ma che è diventata parte del suo quotidiano.
Zainab ha tre figli, Youssef, 11 anni, che sogna di diventare medico, Nour di 8 anni, che custodisce gelosamente un diario segreto pieno di disegni, e Leila, la più piccola, che ha solo 3 anni e non conosce un mondo senza il rumore delle sirene.
Il marito di Zainab è morto mentre lavorava, non colpito dalle bombe ma dalla necessità di lavorare senza pretendere sicurezza. Il volo da una impalcatura traballante gli ha negato il futuro.
Ogni giorno per Zainab è una corsa contro il tempo e contro la paura. Si sveglia all’alba per cercare pane e acqua, camminando chilometri se necessario, evitando le strade troppo esposte. Quando le scuole sono aperte — se non sono state chiuse per sicurezza o trasformate in rifugi — accompagna i figli, sapendo che ogni addio potrebbe essere l’ultimo.
Zainab era un’insegnante di arabo prima della guerra. Ora dà lezioni ai bambini del palazzo quando può, nel corridoio del seminterrato, trasformato in un’aula di fortuna con materassi alle pareti per attutire i colpi. Continua a scrivere poesie, anche se raramente le legge ad alta voce.
Zainab non è un’eroina. È solo una madre che fa del suo meglio per restare umana in un mondo che sembra volerla disumanizzare. Il suo più grande desiderio non è la vendetta, ma una notte intera di silenzio, in cui i suoi figli possano dormire senza svegliarsi.
Mahmoud, muratore di Tiro, ha trasportato sua madre malata per chilometri, attraversando villaggi abbandonati, senza che nessuno si fermasse a chiedergli chi fosse, o di cosa avesse bisogno. Sono vite che non semplificano la narrazione, che non si trasformano in titoli veloci. Sono l’erba calpestata dagli elefanti mentre combattono.

Scandali senza voce
Ogni volta che uno scandalo tocca la politica, in Italia la risposta è sempre la stessa: una commissione parlamentare. È accaduto anche con il crack di Banca Etruria e di altri istituti regionali, travolti tra il 2015 e il 2017 da dissesti finanziari che hanno bruciato i risparmi di decine di migliaia di correntisti.
Nel 2017 il Parlamento ha istituito una commissione d’inchiesta per far luce sui fallimenti e sul contestato salvataggio delle banche, operato nei limiti imposti dalla normativa europea. Ufficialmente l’obiettivo era individuare eventuali responsabilità politiche, oltre a quelle penali già di competenza della magistratura. In realtà, come spesso accade, la commissione è diventata un’arena di scontro tra partiti, più intenti a usare la vicenda come arma propagandistica che a proporre soluzioni.
Il nodo centrale rimane quello del conflitto d’interesse: le banche potevano indebitarsi e piazzare direttamente i propri titoli ai clienti, spesso spacciando obbligazioni ad alto rischio a piccoli risparmiatori dal profilo prudente. Una pratica che metteva in secondo piano l’interesse del cliente rispetto alla sopravvivenza dell’istituto.
Se da un lato il Governo ha potuto agire solo nei margini concessi dalle regole europee, dall’altro emerge la responsabilità del Parlamento che, per anni, ha rinviato una legge seria sul conflitto d’interesse. E quando la crisi è esplosa, la politica ha preferito cercare un capro espiatorio – dal caso Boschi ai banchieri sotto inchiesta – invece di affrontare le radici del problema.
Ancora una volta, dunque, lo scandalo non ha prodotto riforme strutturali, ma una commissione d’inchiesta che ha lasciato dietro di sé più tensioni che soluzioni.
Quando una banca fallisce o un grande scandalo scuote la politica, i nomi che circolano sono sempre quelli dei dirigenti, degli avvocati, dei leader che si difendono davanti alle telecamere. Ma Franco, pensionato, ha perso in un giorno i risparmi di trent’anni. “Avevo messo lì tutto, anche i soldi di mio figlio. Ho acceso la televisione e parlavano di miliardi, come se non significassero nulla. Per me era la mia vita intera”, racconta. La sua voce non trova spazio, perché non appartiene al palcoscenico della politica né a quello della finanza.
E la verità più scomoda è che camminiamo tutti sul bordo di un precipizio. Basta una decisione scellerata della politica, un inconveniente anche banale, un banchiere coinvolto in uno scandalo — e finiamo nel baratro. Come Zainab o Franco. Come milioni di altri che un tempo pensavano di essere al sicuro.

Il meccanismo dell’ombra
Il motivo per cui queste storie restano nascoste è semplice: non producono immagini immediate, non semplificano, non sono funzionali a chi deve costruire una narrazione rapida e chiara. Richiedono tempo, ascolto, complessità. E a volte disturbano, perché mettono in crisi la versione ufficiale. È più facile filmare un elicottero che cala aiuti dal cielo che fermarsi due ore ad ascoltare Franco.
Le vittime danno fastidio perché ricordano ciò che molti preferiscono dimenticare. Una guerra o una calamità non sono fatte solo di strategie e confini, o di mappe e soccorsi, ma di corpi, nomi, volti. Le vittime mettono a disagio perché non tacciono, nemmeno quando restano in silenzio.