I boomer non mollano il testimone
C’è chi a sessant’anni lavora perché deve, e chi perché non sa smettere. Nel mezzo, un Paese che invecchia ma non cambia.
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A sessant’anni, molti italiani non sognano la pensione, ma un nuovo contratto.
Nel 2024, un manager su tre in Italia ha più di cinquant’anni, e quasi 300 mila nuovi occupati appartengono a questa fascia d’età. Mentre le aziende faticano a trovare giovani specializzati — tema che meriterebbe un approfondimento a parte — la generazione dei baby boomer continua a occupare le scrivanie che contano, o si reinventa come consulente, formatore, imprenditore.
Quando Giovanni, 62 anni, ha lasciato il suo posto da direttore commerciale, pensava di aver finito con il lavoro. Oggi gestisce diversi clienti come consulente freelance e dice di lavorare «più di prima, ma con più libertà». Giovanni è uno dei tanti baby boomer italiani che non mollano il testimone.
Una forza lavoro che resiste
Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP, 2024), l’Italia sta vivendo un profondo disallineamento tra domanda di lavoro e competenze disponibili. Un fenomeno che si intreccia con l’invecchiamento della popolazione: gli over 50 restano una componente centrale del mercato, anche di fronte alla rivoluzione digitale e alla rapida obsolescenza delle competenze.
La ripresa occupazionale del dopo-pandemia non è stata trainata dai giovani, ma dalle generazioni più mature.
I dati del portale ClicLavoro mostrano che nel 2024 gli occupati complessivi hanno toccato quota 24 milioni e 51 mila, in aumento di 117 mila unità rispetto al trimestre precedente. A spingere la crescita sono stati soprattutto i lavoratori autonomi e i dipendenti a tempo indeterminato — settori dove la presenza dei baby boomer è particolarmente forte.
Anche l’ISTAT, nel suo Rapporto Annuale 2024, conferma la tendenza: il tasso di occupazione nella fascia 15-64 anni ha raggiunto il 62,1% a marzo 2024, con un incremento netto di 781 mila occupati rispetto al 2019. Ma a guidare l’aumento non sono i giovani: sono gli over 50, che grazie a carriere lunghe, stabilità contrattuale e maggiore possibilità di prolungare l’attività, rappresentano oggi uno dei motori principali dell’occupazione italiana.
Due Italie
Oltre i numeri, nel 2024 più di un terzo della forza lavoro italiana ha superato i cinquant’anni. Ma dietro questa cifra si nascondono due Italie: quella dei baby boomer che, dopo una carriera lunga e stabile, continuano a dirigere aziende o consulenze milionarie; e quella di chi, invece, lavora ancora per necessità — troppo giovane per la pensione, troppo vecchio per essere riassorbito.
Da un lato, i senior benestanti che restano ai vertici: manager, liberi professionisti, imprenditori che non vogliono o non sanno lasciare il posto.
Dall’altro, gli esclusi del mercato: ex tecnici e impiegati espulsi dopo le ristrutturazioni, spesso senza tutele né percorsi di riqualificazione.
Due facce della stessa generazione: chi lavora per potere e chi per sopravvivere.
Secondo il Rapporto INAPP 2024, gli over 50 rappresentano quasi l’80% della crescita occupazionale dell’ultimo anno. Ma non si tratta di un boom di opportunità: per molti, restare attivi è una forma di sopravvivenza economica. Gli “esodati silenziosi”, come li definisce l’Istituto, sono lavoratori troppo anziani per essere assunti e troppo giovani per la pensione: oltre 400 mila persone che tirano avanti con lavoretti o consulenze precarie.
Nel frattempo, la fascia più agiata dei boomer non si ritira. Dirigono imprese, siedono nei consigli di amministrazione, gestiscono capitali e carriere. In teoria dovrebbero passare il testimone, in pratica lo tengono ancora stretto.
Il risultato è un mercato del lavoro bloccato, dove i giovani faticano a entrare e i senior non riescono a uscire.
L’Italia del 2024 è così: un Paese dove chi ha perso il lavoro non può smettere di cercarlo, e chi ha tutto non vuole rinunciare al proprio ruolo.
Il motore del lavoro italiano, insomma, non è l’innovazione generazionale, ma la tenacia anagrafica.
Un Paese di contraddizioni
Mentre una parte dei boomer consolida carriere e patrimoni, un’altra scivola verso la povertà.
Eppure entrambe le condizioni — il privilegio e la precarietà — contribuiscono a bloccare il ricambio generazionale.
Il risultato è un mercato del lavoro statico, incapace di favorire il passaggio tra generazioni.
I giovani restano ai margini, intrappolati in contratti a termine o part-time involontari, o costretti a cercare spazio all’estero, mentre la fascia senior occupa le posizioni più stabili e le reti di influenza.
Il tasso di disoccupazione under 35 sfiora ancora il 20%, mentre quello degli over 50 cresce, ma per motivi opposti: per i primi mancano le porte, per i secondi manca l’uscita.
Questa doppia realtà fa dell’Italia un caso quasi unico in Europa.
In Francia e Germania, le politiche di “age management” incoraggiano la transizione verso il mentoring o il tempo parziale senior, liberando spazi per i giovani. In Italia, invece, la generazione dei baby boomer resta al centro della scena economica e simbolica.
Non per un piano strategico, ma per inerzia culturale: l’idea che chi lavora da sempre debba continuare, perché “senza di lui l’azienda non va avanti”.
I boomer del potere
Il fenomeno non riguarda solo il mondo del lavoro. Anche nella politica italiana i baby boomer restano saldamente al comando, spesso da decenni.
Per alcuni rappresentano continuità ed esperienza: sono i volti che hanno accompagnato il Paese nelle sue crisi e ne conoscono le fragilità. Ma per molti altri incarnano l’immobilismo di un sistema che non si rinnova mai davvero.
In Parlamento, nelle amministrazioni locali e nei partiti, la generazione dei nati tra il 1950 e il 1965 occupa ancora la maggior parte dei ruoli di vertice. Sono figure che hanno consolidato reti, linguaggi e modelli di gestione nati in un’altra epoca, spesso inadatti a interpretare un mondo politico frammentato, digitale e fluido.
Tra loro ci sono esempi virtuosi, capaci di mediare e guidare processi complessi. Ma accanto a questi, resiste una classe dirigente che preferisce mantenere il controllo, anche quando non ha più una visione da offrire.
Non si tratta solo di età anagrafica, ma di un modello culturale: l’idea che l’esperienza debba sempre prevalere sull’innovazione, e che il ricambio sia una minaccia più che una risorsa.
Così, mentre l’Europa discute di intelligenza artificiale, sostenibilità e partecipazione civica digitale, l’Italia resta ancorata a un ceto politico boomer che gestisce, più che guidare, il cambiamento.