Basi militari straniere in Italia: facciamo il punto con Weapon Watch

Carlo Tombola, co-fondatore di Weapon Watch, analizza i dati relativi alla presenza di basi militari straniere sul territorio italiano, offrendo una panoramica sui numeri, la distribuzione e l’impatto di queste strutture, con un focus particolare sulle implicazioni geopolitiche, ambientali e di sovranità nazionale.

Introduzione

L’occupazione del suolo italiano da parte di basi militari a giurisdizione straniera rappresenta un tema delicato che solleva questioni di sovranità nazionale, sicurezza ambientale e impatto sociale. Nonostante il suolo sia formalmente italiano, la presenza di basi sotto controllo straniero, come quelle degli Stati Uniti, mette in discussione la piena autonomia del nostro Paese in materia di difesa e gestione del territorio.

Le conseguenze di questa occupazione si manifestano non solo a livello politico, ma anche ambientale. Infatti, le aree circostanti le basi militari, soprattutto quelle dismesse, soffrono spesso di gravi contaminazioni del suolo, frutto di decenni di attività bellica e sperimentazione, con ripercussioni dirette sulla salute delle comunità locali.

Armi nucleari

Un ulteriore elemento di preoccupazione è legato alla presenza di armi nucleari sul territorio italiano. Attualmente, si stima che siano custodite circa 70 testate nucleari, distribuite tra le basi di Aviano e Ghedi. Nella base di Aviano sono ospitate bombe atomiche del tipo B61-4, mentre l’aeroporto militare di Ghedi detiene una varietà di bombe nucleari tra cui B61-3, B61-4 e B61-7. La presenza di queste testate non solo espone l’Italia a potenziali rischi, ma solleva interrogativi sul rispetto degli impegni internazionali relativi alla non proliferazione nucleare.

La presenza di queste infrastrutture militari straniere pone dunque l’Italia in una posizione complessa, dove il diritto alla difesa si intreccia con la perdita di sovranità e l’impatto negativo sull’ambiente e sulla sicurezza dei cittadini.

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Una domanda, mille risposte

Quante sono le basi americane in Italia? La domanda e la relativa risposta hanno avuto una loro popolarità al tempo del “V2-day” di Beppe Grillo: «Ve lo dico io quante sono, e poi voi mi guarderete e mi direte “è impossibile!”: sono 113! che sono presenti in quasi tutte le regioni italiane!» Enrico Mentana raccolse la provocazione in una puntata di Matrix (6 maggio 2008): “No, abbiamo interpellato il Ministero della difesa, una fonte ufficiale, secondo cui sono solo sette”. A Canale 5 riuscirono comunque a imbastire un approfondimento, intervistarono alcuni esperti e individuarono la fonte della cifra sparata da Grillo: un dossier pubblicato dalla rivista di studi geopolitici Eurasia, con un elenco delle basi americane nel mondo e delle 111 basi italiane.

Mariantoni, chi era costui?

L’autore del dossier, il giornalista Alberto B. Mariantoni (Rieti 1947-Nyon 2012) disse a Matrix di avervi lavorato oltre otto mesi e di aver verificato le notizie anche con sopralluoghi personali, partendo da informazioni confidenziali «di altissimo livello», così alto che «per proteggere la fonte» decise di inserire nell’elenco alcune basi fasulle. Potrebbe essere verosimile che questa fonte sia un alto ufficiale o un agente dei servizi, italiani o stranieri o “deviati”, visto il personaggio.
Mariantoni è stato infatti un esponente non di secondo piano dell’eversione nera, un fascista duro e puro fino all’ultimo. Giovanissimo, fu in prima fila insieme a Delle Chiaie negli scontri di Valle Giulia (1968). Partecipò al cosiddetto “golpe Borghese” (1970), quindi riparò nella Spagna franchista per sfuggire a un mandato di cattura.

Giornalista con accredito ONU

Stabilitosi in Svizzera, si inventò una carriera di giornalista free lance di lusso, con tanto di accredito dell’ufficio ONU di Ginevra e interviste esclusive ai più importanti leader arabi e dei paesi non-allineati, tra cui Arafat, Khomeini, Gheddafi, Ahmed Ben Bella.
Scrisse molti libri “contro-corrente”, uno uscì contemporaneamente in Italia e in Francia sulla questione mediorientale, con posizioni anti-ebraiche e anti-americane; altri apertamente apologetici del fascismo. Tra l’altro, fu uno dei fondatori del Fronte nazionale italiano di Adriano Tigher (1997), nonché per dieci anni presidente della Camera di commercio italo-palestinese.

Opacità della fonte

L’opacità della “fonte della fonte” avrebbe dovuto consigliare maggiore cautela, invece l’elenco di Mariantoni è stato ripreso in versioni praticamente identiche, anno dopo anno, da decine di siti web, i più disparati: SitoComunista, l’«associazione politico-culturale progressista, democratica e antifascista, d’ispirazione marxista» Su la testa-l’altra Lombardia, l’agenzia stampa Info.Pal Palestinian-Italian News, Byebyeunclesam, l’Aero Club Modena, gli ambientalisti di Nogeoingegneria1, la rivista online “Il faro sul mondo”, “Noi siamo Chiesa”, la sezione italiana del movimento internazionale “We Are Church” per la riforma della Chiesa cattolica, e altri ancora. Ne ha aumentato l’autorevolezza la versione pubblicata da L’Espresso come elenco delle servitù militari, ripresa senza alcun controllo nei mille rami della rete.

Alcune premesse di metodo

Prima di contarle, chiariamo qual è l’oggetto della nostra analisi. Bisognerà valutare caso per caso, ma in generale è una “base militare straniera” ogni installazione sul territorio nazionale messa stabilmente o frequentemente a disposizione dei comandi militari operativi non italiani, siano essi riferibili agli Stati Uniti o all’Alleanza atlantica. Secondo David Vine, il massimo esperto di basi americane, «la creazione di una lista è complicata anche da come si definisce e si considera una “base”. Le definizioni sono in ultima analisi politiche (e politicamente sensibili). Spesso il Pentagono e il Governo degli Stati Uniti, così come le nazioni ospitanti, cercano di dipingere la presenza di una base americana come not a U.S. base per evitare la percezione che gli Stati Uniti stiano violando la sovranità della nazione ospitante (cosa che, in effetti, accade spesso). Per evitare il più possibile questi dibattiti, definisco una “base” utilizzando il termine “sito di base” del Pentagono. Si tratta di una metodologia generalmente conservativa, il che significa che i miei elenchi potrebbero trascurare alcune basi».

Oltre il dibattito

Queste parole ci aiutano ad andare oltre il dibattito, più accademico che politico e in ogni caso poco utile, che nei decenni si è sviluppato anche in Italia attorno all’effettiva giurisdizione delle basi militari, se cioè ricadano sotto la responsabilità italiana o dell’Alleanza atlantica o degli Stati Uniti, o sotto diverse combinazioni di questi tre attori. È generalmente accolta l’opinione che le basi in uso agli Stati Uniti e/o alla Nato non godano di extra-territorialità, ma ottant’anni di storia ci hanno insegnato che un conto è lo stato di diritto e un conto sono i rapporti di forza.

Quelli tra Italia e Stati Uniti sono stati determinati dalla sconfitta nella guerra voluta dal fascismo e dalla conseguente occupazione militare del paese, condizione che perdura tuttora e che ci accomuna a Germania e Giappone, gli altri paesi sconfitti nel 1945. Nonostante i molti decenni trascorsi da allora, ogni tentativo di esercitare una piena sovranità, anche su questioni limitate ma tali da poter costituire un precedente, si è infranto per le pressioni esercitate dagli alleati nei confronti di tutti i livelli della gerarchia amministrativa e politica nazionale.

I trattati segreti

La questione delle basi, poi, è paradossale perché regolata da trattati segreti, a partire da quello bilaterale dell’ottobre 1954, di cui non si può conoscere il testo ma che a sua volta ha funzionato da “ombrello” giuridico per successivi documenti e memorandum bilaterali o Nato, anch’essi di conseguenza segreti. Sul tema delle basi militari, così cruciale, lo scudo costituzionale è stato ed è del tutto inefficace.

Ogni installazione militare è una base se è riconoscibile ed è fisicamente isolata dal contesto urbano o rurale in cui si trova, mediante muri, barriere, reticolati, torrette ecc. David Vine precisa che «in alcuni casi un’installazione generalmente indicata come una singola base, per esempio la base aerea di Aviano in Italia, è in realtà composta da più siti di base – nel caso di Aviano, almeno otto. Contare ogni sito della base ha senso perché i siti con lo stesso nome si trovano spesso in luoghi geograficamente diversi. Gli otto siti di Aviano si trovano in zone diverse della città. In genere, inoltre, ogni sito di base riflette distinti stanziamenti del denaro dei contribuenti da parte del Congresso».

Minimizzare il numero delle basi

Per minimizzare il numero delle basi, le autorità militari italiane aggregano alla base principale le sue cosiddette “pertinenze”, sorvolando che ciascuna pertinenza ha un proprio e distinto impatto sul territorio e sulla comunità locale più prossima, per consumo di suolo agricolo, peso delle infrastrutture urbanistiche, inquinamento acustico e dell’aria, incremento del traffico veicolare, rischio di coinvolgimento in incendi e esplosioni (molto spesso i siti secondari sono polveriere e depositi di munizioni o di carburante).

Le fonti statunitensi non lasciano dubbi, semmai qualche lacuna

Nell’inventario dei siti militari, pubblicato ogni anno dal Segretario alla difesa degli Stati Uniti, troviamo ciò che il Pentagono considera “di proprietà federale” sotto un profilo meramente immobiliare. L’ultimo inventario pubblicato è aggiornato al 30 settembre 2023, e riporta per l’Italia 33 U.S. sites principali più 14 minori. Nel quadro complessivo della proiezione militare americana nel mondo, l’Italia si conferma come paese strategicamente importante per gli Stati Uniti, che vi mantengono installazioni militari per più di 13,3 miliardi di dollari, ma non importante quanto il Giappone (175 miliardi di $), la Germania (50 miliardi) o la Corea del Sud (48 miliardi). Circa un quarto dell’investimento militare in Italia si deve all’Air Force, il restante 75% è diviso quasi alla pari tra US Navy ed Esercito (non ci sono basi dei Marines in Italia).

Aviano

La base italiana più importante è quella aerea di Aviano, la più estesa con i suoi 5,5 milioni di m2, in cui il Pentagono ha investito 3,3 miliardi di dollari. Dei sette annessi alla base principale citati da Vine, uno (l’Air Force Housing Annex ) è geograficamente sparso, costituito dai 13 immobili in affitto per le residenze del personale posti in un raggio di 15 minuti dalla base. Gli uffici e il quartier generale, il deposito munizioni e il magazzino manutenzioni occupano tre annessi separati, in tutto 34 edifici di proprietà federale, un quarto è alle porte di Pordenone per gestire i piccoli commerci privati dei militari. La base operativa vera e propria consiste in 188 edifici (il 40% in proprietà), 250.000 m2 coperti su un’area complessiva di 5 milioni di m2, compresa un’“area Nato” con doppia recinzione di sicurezza che racchiude 12 protective aircraft shelters (ricoveri corazzati dei jet), dotati di caveau sotterranei per lo stoccaggio delle bombe nucleari. Com’è noto, anche la “condivisione nucleare” – cioè il dispiegamento di ordigni atomici americani anche in paesi che, come l’Italia, si sono impegnati a non dotarsi dell’arma atomica – fa parte delle decisioni a senso unico prese molto tempo fa a Washington, e accettate in segreto a Roma. A Roma, invece, si è deciso recentemente e pubblicamente (in Parlamento) di non firmare il Trattato sulla messa al bando delle armi atomiche.

Base Vicenza

Seconda per dimensione è “base Vicenza”, che è una base dell’esercito americano composta di sei annessi, tre di grandi dimensioni. La caserma Ederle (600.000 m2) e la caserma Del Din (580.000 m2) sono in città, distanti tra loro 7-8 km, nel complesso 284 immobili di proprietà federale per un controvalore a inventario di oltre 2,4 miliardi di dollari. A circa 10 km dalla Ederle si trova il Site Pluto di Longare, già deposito di testate nucleari (gli americani preferivano l’eufemismo special weapons) scavato sotto i Colli Berici, di recente riqualificato dall’amministrazione militare Usa per ospitare un moderno centro di intelligence militare. Si aggiungono un family housing da 800 milioni di $ (il 70% in affitto), più un’altra area in città di 1,2 milioni di m2 quasi interamente in affitto, e infine un’area di stoccaggio di 2.500 m2, probabilmente il deposito munizioni “(#7) Usa Setaf – Id 6666”di Tormeno sottoposto a servitù militare, recentemente prorogata dal 2021 al 2026.

Camp Darby

Collegata a “base Vicenza” perché appartenente alla stessa “guarnigione”, Camp Darby è la più storica delle basi americane in Italia, dal momento che risale al luglio 1944 l’accampamento militare nella Tenuta di Tombolo, tra Pisa e Livorno, poi trasformato in insediamento stabile nel 1951, con un accordo bilaterale tra Italia e Stati Uniti la cui scadenza rimane segreta.
Oggi, su una superficie di mille ettari, in parte utilizzata anche dalle nostre forze armate (in un sito interforze si conservano le scorie del reattore nucleare sperimentale “Galileo Galilei” spento nel 1980), si trova il più grande deposito di materiale e munizioni che gli Stati Uniti mantengono in Europa, ottimamente servito dal vicino porto di Livorno – che è il porto italiano più coinvolto nel traffico militare insieme alla Spezia – collegato alla base via ferrovia e via acqua attraverso il Canale Navicelli, e dal confinante aeroporto di Pisa San Giusto.

È di fatto un gigantesco terminale logistico multimodale, costantemente rifornito dai cargo di bandiera americana che portano e ricaricano armi, missili, bombe e munizioni di ogni tipo, carri armati, mezzi corazzati, cannoni, veicoli leggeri e pesanti, cingolati, ponti mobili, ospedali da campo e ambulanze, carburanti, razioni alimentari, materiali da costruzione e da barriera, pezzi di ricambio. Su una superficie formalmente italiana, l’esercito americano ha costruito 328 edifici per quasi 200.000 m2 che considera propri, in cui lavorano 1.500-2.000 persone.

La Marina militare degli Stati Uniti

La presenza della Us Navy in Italia poggia su due possenti pilastri: da una parte nell’area napoletana sono collocati i comandi della VI Flotta; dall’altra, la base di Sigonella, in provincia di Catania, è l’insediamento operativo più prossimo alle aree di crisi di Nordafrica e Medioriente. Quando si parla di comandi, per un’armata aero-navale presente in tutti i mari del pianeta, si parla di strutture di comunicazione intercontinentali, di aeroporti e di flotte aeree, di squadre navali e di porti attrezzati.

A Napoli c’è tutto questo nei due siti del Nsa Naval Support Activity, Capodichino (230.000 m2 in proprietà) e Gricignano di Aversa (oltre 900.000 m2, gran parte in locazione), valore complessivo di circa 2,5 miliardi di dollari. In quello di Lago Patria, frazione di San Giugliano in Campania, hanno sede la Ncts Naval Computer and Telecommunications Station e l’Allied Joint Force Command. A un centinaio di chilomentri da Napoli, il distaccamento Nsa di Gaeta ospita e supporta la Uss Mount Whitney, l’ammiraglia della VI Flotta che è anche nave comando per le forze di attacco e supporto navali della Nato, con base proprio nel porto di Gaeta.

Sigonella

La base aeronavale di Sigonella occupa cinque distinti siti, complessivamente per quattro milioni e mezzo di m2, di cui 280.000 m2 coperti sono di proprietà federale: Nas 2 Sigonella è la maggiore base aeronavale operativa del Mediterraneo, fondamentale per il supporto logistico e la rotazione del personale imbarcato, nonché centro di lancio e controllo dei grandi droni di sorveglianza Triton. Il sito ospita anche la nuova Ncts Naval Computer and Tele- communications Station – Sicily che supporta le comunicazioni critiche per Usa, Nato e coalizioni militari.

Nas 1 Support Area è l’ex Villaggio Nato, nucleo originario della base costruito a partire dagli anni Cinquanta ma divenuto troppo piccolo e da cui molte funzioni sono migrate a Nas 2, che dista una ventina di minuti d’auto; Nrtf Naval Radio Transmitter Facility – Niscemi è il grande “campo” delle antenne Mous inserito nella rete satellitare mondiale delle comunicazioni navali.

Nas Sigonella Belpasso Housing è un grande villaggio di 530 villette, costruite nei primi anni Duemila dall’ Impresa Pizzarotti di Parma, che ne cura affittanza e manutenzione, e poi Nato Ordnance Facility è il deposito di stoccaggio e manutenzione delle munizioni costruito negli anni Sessanta, in corso di ammodernamento (investimento di 72 milioni di dollari per quattro box in cemento armato per bombe ad alto potenziale).

Il rifornimento di carburanti a navi e sottomarini americani è garantito dalla base di Augusta, a una cinquantina di chilometri da Sigonella. Molte manovre  antisommergibile Nato si sono svolte nel poligono marittimo di Pachino, al largo della Sicilia sudorientale.

Le basi excelsior, eccellenza italiana

Un filo rosso, un elemento comune collega le basi maggiori elencate sopra: la grandiosità dell’accomodation, in uno stile smaccatamente “americano” che sicuramente è lo standard di tutte le installazioni militari Usa, in patria e all’estero. Prendiamo il caso della cittadella di Gricignano, 800.000 m2 affittati dal Pentagono per trent’anni per ospitare 995 alloggi residenziali, un complesso scolastico per 1.500 studenti (21.000 m2), un centro commerciale (50.000 m2), un centro comunitario con hotel da 100 camere, chiesa, biblioteca e palestra, un edificio residenziale da 10.000 m2 e undici edifici di servizio (telefono, centro tv-radiofonico, manutenzione ufficio, magazzino, bowling, cinema, vigili del fuoco, garage ecc.). Solo il nuovo ospedale (85.000 m2) inaugurato nel 2002 è stato acquisito come proprietà federale, su espressa domanda del Pentagono.

Un pezzo di States in Italia

All’interno di ogni grande base, ogni militare ha diritto alla camera individuale con servizi e cucina, anche se normalmente pranza nelle “mense Italia” o in un fast food americano in franchising. Per gli acquisti personali ha a disposizione numerose shoppettes dove trova dal dentifricio agli accessori per fucile, i liquori, le sigarette ecc. I centri sportivi che offrono campi da baseball, softball, basket, tennis, soccer ecc. sono spesso appartati, mentre sono di solito posizionate al centro della base le palestre fitness e le piscine (elegante il restyling di quella di Camp Ederle, ricoperta di vetrate foto- termoisolanti). Onnipresenti i centri Exchange (anche chiamati PX, Post Exchange) dove americani e locali compra-vendono auto, moto, elettrodomestici e altri beni durevoli.

L’ufficio del “tempo libero”

L’ampia offerta di servizi mira a mantenere i famigliari del personale militare all’interno del perimetro di sicurezza della base o dei villaggi residenziali loro riservati. Ma l’amministrazione militare, attraverso un apposito ufficio del “tempo libero”, gestisce anche ampi spazi verdi esterni. A Gaeta ufficiali e marinai hanno a disposizione i due ettari e mezzo dell’Olde Mill Inn Park, molto prossimo al porto. Per rimanere nell’area napoletana, a Pozzuoli c’è il gigantesco Carney Park, un centro sportivo-ricreativo di ben 43 ettari, con campo da golf, campi da tennis e una cinquantina di edifici dedicati a sport e relax, il tutto edificato all’interno della caldera del Campiglione, nei Campi Flegrei, nella parte settentrionale del vulcano Gauro (un vulcano attivo…). Caso unico in Europa, i militari di stanza a Camp Darby e i famigliari hanno avuto a loro disposizione per sessant’anni un tratto della spiaggia di Marina di Pisa, ancora oggi noto come American Beach, restituito al Comune di Pisa dal 2015.

L’Italia fuori dalle basi americane

Come suggeriscono recenti ricerche, l’impatto sull’ambiente delle basi e dell’attività militare è estremamente negativo. In Italia non ci sembra che qualcuno se ne sia occupato, sinora. Come primo approccio, si potrebbe calcolare la carbon footprint del sistema delle basi militari straniere in Italia, o anche solo dell’impatto sul traffico locale degli spostamenti infra- ed extra-urbani creati dalle grandi basi. A Vicenza si calcola che siano 16.000 persone, tra militari e civili, che vivono, lavorano e si muovono tra le diverse pertinenze della base.

Ne ha dato conto Pietro Malesani, “L’impatto degli eserciti e del settore militare sulla crisi climatica”, in Altreconomia, dell’ 8 aprile 2024.

Prima dei recenti ampliamenti, i comandi Usaf stimavano che ogni giorno per le proprie necessità la base di Aviano creava un traffico stradale di 5.000 veicoli.

Fiumi di inchiostro

Fiumi di inchiostro, invece, sono stati spesi per valutare il valore politico e di politica internazionale che le basi hanno rappresentato e rappresentano oggi. È anche per noi indubbio che sono una delle tante manifestazione del hard power riservato dagli Stati Uniti ai loro “alleati” in tutto il mondo, un’esibizione muscolare ed economica dell’abissale differenza tra l’estensione e il peso degli interessi americani, a confronto di ciò a cui può ambire anche un paese come l’Italia.

Tuttavia, fino alla svolta degli anni Novanta l’intento difensivo dell’occupazione americana po- teva essere considerato plausibile ed effettivo, al di là delle ossessioni tipiche della Guerra fredda circa una possibile invasione sovietica, e senza entrare qui nella sfera delle “interferenze” più direttamente politiche nella vita e nella storia del Paese, vedi solo ad esempio i “casi” Mattei e Moro.

Nuclear sharing

Fino a un certo momento, la presenza stabile di militari Usa/Nato ha comportato frequentemente una catena di comando double key italo-americana, anche se in definitiva dipendente dalle decisioni del Pentagono. All’interno della Nato, di nuclear sharing non si è mai ufficialmente parlato prima del 2010, ma di fatto l’Italia aveva accettato di ospitare sul suo territorio le bombe atomiche americane già dal gennaio 1962, firmando il memorandum segreto Atomic Stockpile Agreement.

Anzi, quel passo era stato preceduto dal dispiegamento sul campo, in collaborazione con l’Aeronautica Militare, di dodici basi di lancio dei missili anti-missile Mim-14 Nike Hercules, situate quasi tutte in Veneto, di cui sette abilitate all’impiego di ordigni nucleari. Queste basi rimarranno operative tra i primi anni Sessanta e il 1998, e inquadrate nella 1a Brigata aerea Intercettori Teleguidati.

La loro collocazione geografica, le attrezzature fisse e mobili (piattaforme di lancio, radar di acquisizione e inseguimento bersaglio, ovviamente missili e testate, ecc.), gli obiettivi di addestramento da raggiungere perché ciascuna base ottenesse la “qualifica Nike”: tutto ciò era deciso dal Supremo comando alleato, e messo in pratica sotto la supervisione di ispettori e tecnici militari americani, ai quali – precisava il memorandum – nelle caserme italiane si dovevano garantire gli abituali standard americani di alloggio e alimentazione.
Tuttavia il personale operativo delle basi Nike era composto da ufficiali di carriera e avieri di leva italiani, per alcuni anni regolarmente inviati negli Stati Uniti a svolgere i corsi di addestramento (a Fort Bliss, Texas, in lingua inglese) e le esercitazioni di tiro (nel poligono Mc Gregor, New Mexico). Dopo il 1962, il programma Nike divenne ufficiale, l’addestramento venne spostato in Italia, nella Scuola missili dell’Aeronautica di Montichiari e nel poligono di tiro di Salto di Quirra in Sardegna, sempre sotto l’attento controllo degli ispettori Usa.

Nome in codice West Star” e “Back Yard

La rete Nike rispondeva direttamente ai comandi Usa/Nato di Verona. In caso di attacco, i comandi si sarebbero spostati in “basi segrete” sotterranee a prova di attacco nucleare e chimico. Se ne conoscono due, nomi in codice “West Star” e “Back Yard”. Situata nei pressi di Affi, West Star è stata centro telecomunicazioni e controllo per tutte le esercitazioni Nato dal 1966 al 2007, poteva ospitare fino a 500 persone nei suoi 13.000 m2 di bunker antiatomici sotterranei, su tre livelli. Back Yard ne era la replica in scala minore, 6.000 m2 su un solo livello, ricavati in parte dalle gallerie della vecchia miniera di Grezzane, e sarebbe entrata in azione nel caso West Star fosse fuori uso.

Anche le esercitazioni nei bunker si svolgevano sotto la supervisione americana ma con personale tecnico- operativo italiano.
Tutta la rete Nike e i bunker segreti sono ancora ben rintracciabili sul territorio, con diversi livelli di degrado e abbandono. In qualche caso le comunità locali progettano di farne musei della Guerra fredda o spazi sociali organizzati fruibili dagli abitanti, e un paio sono già utilizzati per eventi pubblici estivi.

L’Italia come semplice ausilio logistico

Dopo gli anni Novanta, con il capovolgimento degli obiettivi strategici della Nato – da baluardo contro un’ipotetica invasione sovietica ad alfiere dei valori occidentali in tutti i teatri di crisi, a partire dalle guerre jugoslave – anche il ruolo delle basi americane in Italia è cambiato. Oggi il territorio italiano è una piattaforma per intraprendere operazioni militari decise a Washington e Bruxelles, a cui talvolta le forze armate italiane neppure partecipano, se non come ausilio logistico (si pensi ai voli “segreti” nei primi giorni del marzo 2022, compiuti da C-130J Hercules dell’Aeronautica militare, per armare l’Ucraina attraverso la Polonia).

Con il XXI secolo, si è avviata la rapida dismissione delle basi double key, che la fine della Guerra fredda aveva reso obsolete, in una fase in cui inoltre le forze armate italiane stavano passando dalla coscrizione obbligatoria al reclutamento volontario, dall’esercito di popolo all’esercito professionale.

Da parte loro, le ultime sei amministrazioni americane hanno investito fortemente nelle basi maggiori – quelle che abbiamo analizzato sopra e poche altre (Ghedi, San Vito dei Normanni) – e forse persino a ripensare alcune dismissioni (come La Maddalena, restituita nel 2007). Oggi la presenza militare in Italia è molto più utile al mantenimento dell’egemonia degli Stati Uniti che alla difesa dello spazio europeo da pericoli esterni, e tantomeno a garantire un’autodifesa dell’Europa unita, che oltreatlantico hanno sempre visto come insidioso competitor economico che profitta dell’ombrello militare pagato dai contribuenti americani.

I primi risultati

Dalla verifica delle liste pubblicate in rete si possono ricavare i primi dati.
Le basi americane in Italia sono almeno una cinquantina, come ci confermano i documenti ufficiali statunitensi. Anche ammettendo che siano tutte su territorio giuridicamente italiano, sarà ben difficile – nel caso di un processo di dismissione unilaterale, che al momento non ci sembra neppure ipotizzabile – non riconoscerne il valore immobiliare messo a inventario dal Dipartimento della difesa.
Abbiamo constatato che una decina di basi segnalate dagli elenchi in rete non sono reperibili o sono doppioni di basi esistenti o esistite. Gli elenchi in rete indicano la presenza di un altro centinaio di siti, di cui circa quaranta sono basi dismesse, come abbiamo già potuto constatare.
Rimane da compiere la verifica delle rimanenti sessanta basi.

Una seria ricerca dovrebbe prendere in considerazione anche altre infrastrutture concesse in uso agli Stati Uniti e/o alla Nato, ad esempio i depositi e le stazioni di pompaggio dell’oleodotto Pol-Nato per jet fuel, che collega il terminale marino della Spezia con le basi aeree del Nordest. Da approfondire anche la non casuale contiguità tra alcune basi militari (ad esempio Cameri, Salto di Quirra) e alcuni impianti industriali di Leonardo.

Carlo Tombola
Weapon Watch

 

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