Working poor: lavori ma resti povero
Milioni di italiani lavorano ma non riescono a vivere dignitosamente: salari fermi, precarietà e disuguaglianze territoriali alimentano una povertà silenziosa che mina la coesione sociale e la democrazia
Il lavoro, da sempre motore di riscatto individuale e collettivo, oggi fatica a garantire persino la sopravvivenza. Salari stagnanti, contratti precari, esternalizzazioni, appalti al ribasso e un crescente isolamento sociale hanno eroso il significato stesso dell’occupazione come fonte di libertà e dignità. Troppi lavoratori restano esclusi dai diritti fondamentali – casa, salute, formazione – e vivono in una condizione di vulnerabilità cronica.
Nel Paese dei 24,3 milioni di occupati, con un tasso di occupazione stabile al 62,9% e una disoccupazione attorno al 6,3%, si nasconde un mercato del lavoro frammentato. Sempre più italiani, pur lavorando, non riescono a superare la soglia della povertà. Sono i working poor: impiegati nei servizi, nei contratti part-time o nelle false partite IVA, che sopravvivono tra precarietà e stipendi incapaci di coprire le spese essenziali. È la nuova frontiera dell’insicurezza sociale, che non si misura solo in statistiche ma nella distanza crescente tra chi lavora e chi riesce davvero a vivere del proprio lavoro.
Questa condizione attraversa tutte le generazioni, i territori e i settori produttivi. Giovani e donne pagano il prezzo più alto, insieme ai migranti e ai lavoratori delle professioni a bassa qualifica. L’Italia, pur vantando uno dei tassi più alti di copertura contrattuale in Europa, registra tra le peggiori dinamiche salariali del continente.
Costruire un futuro più equo: perché serve un vero reddito minimo
Nel 2023, secondo Eurostat, il 22,8% degli italiani viveva a rischio di povertà o esclusione sociale, contro una media europea del 21,3%. Quasi una persona su quattro affronta quotidianamente la possibilità di non farcela. Il tasso di povertà assoluta, rileva l’Istat, è più che triplicato in quindici anni: dal 3,1% del 2007 al 9,7% del 2023. Parliamo di 5,7 milioni di persone e 2,2 milioni di famiglie.
I più colpiti sono i minori, con un’incidenza del 13,8%, più del doppio rispetto agli over 65 (6,2%). Nelle famiglie con tre o più figli piccoli la povertà tocca il 21,6% e supera il 40% tra quelle composte da soli stranieri. Ma la vera novità è l’ampliarsi di una fascia di vulnerabili “sospesi”, che vivono appena sopra la soglia di povertà e bastano un affitto arretrato, una malattia o la perdita del lavoro per precipitare nel baratro.
Secondo la Caritas, quasi un terzo degli assistiti accumula tre o più fragilità — economiche, abitative, relazionali o sanitarie. È la prova che la povertà oggi è multidimensionale e non può essere affrontata solo con sussidi economici.
In Europa il reddito minimo è riconosciuto da oltre trent’anni come strumento essenziale di contrasto alla povertà. Nel 2023, il Consiglio dell’Unione Europea ha ribadito il diritto a un reddito minimo adeguato e inclusivo, invitando gli Stati a ridurre le disuguaglianze. Tuttavia, le differenze restano enormi: in Francia oltre il 90% delle persone povere riceve un sussidio, mentre in Lettonia meno del 5%.
L’Italia è arrivata tardi. Dopo esperimenti locali negli anni Novanta, lo Stato ha introdotto misure nazionali solo nel 2017 con il Reddito d’Inclusione, poi sostituito nel 2019 dal Reddito di Cittadinanza. Quest’ultimo, pur con limiti evidenti, ha rappresentato la prima risposta organica alla povertà diffusa, raggiungendo milioni di famiglie e mitigando gli effetti della pandemia.
Nel 2023, il Governo ha abolito il Reddito di Cittadinanza, sostituendolo con l’Assegno d’Inclusione e il Supporto Formazione e Lavoro. Il primo rivolto alle famiglie con minori, anziani o disabili, il secondo ai disoccupati tra 18 e 59 anni. Si è tornati a un approccio selettivo che rischia di lasciare scoperte centinaia di migliaia di persone — soprattutto giovani e adulti soli — vanificando i progressi di un decennio.
Una questione strutturale
Il lavoro povero non è un’emergenza passeggera ma un elemento strutturale del nostro modello economico. Negli ultimi trent’anni la crescita italiana si è basata su bassi costi, flessibilità estrema e frammentazione produttiva. Le micro e piccole imprese, cuore del sistema, spesso non innovano né garantiscono tutele adeguate; nelle filiere di subappalto e nei servizi esternalizzati i lavoratori restano ai margini, con salari minimi e pochi diritti.
Le disuguaglianze territoriali amplificano il problema: nel Mezzogiorno i salari sono più bassi, l’occupazione più fragile, i servizi pubblici più carenti. Nelle aree interne, alla scarsità di lavoro si sommano carenze infrastrutturali e opportunità ridotte, alimentando nuove povertà invisibili, anche tra chi lavora da remoto o come autonomo.

Le storie dietro i numeri
Dietro le statistiche ci sono vite concrete. Le campagne dell’Agro Pontino, dove migliaia di braccianti stranieri affrontano turni massacranti e condizioni di sfruttamento che ricordano la servitù. I cantieri del Nord-Est, dove la logica dell’appalto e del subappalto riduce sicurezza e diritti. Le città d’arte del Sud, dove il turismo produce impieghi stagionali e sottopagati. E perfino il mondo dell’informazione, dove molti giornalisti accettano compensi di pochi euro pur di collaborare con un quotidiano, guadagni che bastano appena per la spesa ma non per una vita dignitosa.
Esperienze diverse ma unite da un filo comune: la perdita di valore del lavoro e la fatica quotidiana di chi si impegna senza ottenere riconoscimento economico e sociale.
L’urgenza di una nuova alleanza sociale
Il lavoro povero non è solo un problema economico, ma una questione di democrazia. Quando chi lavora non può permettersi una vita libera e dignitosa, la distanza tra cittadini e istituzioni si allarga, la fiducia si erode, la partecipazione politica si spegne. Lo si vede chiaramente a ogni tornata elettorale.