Viaggio nei settimanali degli anni ’80, quando l’ironia era una forma di giornalismo e non solo un gioco di parole
Quando bastava un titolo ben scritto per fare più rumore di un tweet
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C’era un tempo in cui i titoli dei settimanali erano piccoli capolavori di spirito.
Bastava una riga, un proverbio rovesciato, e già sapevi tutto: il tono, il giudizio, persino l’umore del Paese.
“Ambasciator non porta bene”: così, con una battuta, un settimanale raccontava un’intera storia.
Era l’Italia che aveva ancora voglia di ridere un po’, e che usava la leggerezza come una forma di giornalismo.
Oggi quell’arte sembra svanita, sepolta sotto il peso dei titoli urlati, dei “non ci crederai mai”, dei moralismi travestiti da notizia.
Ma forse vale la pena tornare a guardarli, quei titoli. Perché in poche parole contenevano tutto: la lingua, la cultura e l’anima di un’epoca.
I titoli sono la prima linea su cui si misura l’informazione.
Sono il punto d’ingresso nella realtà, il primo filtro attraverso cui leggiamo il mondo. Ma in Italia quelle poche parole in grassetto spesso fanno molto più che informare: plasmano, semplificano, e a volte distorcono.
Ogni giorno milioni di lettori scorrono le homepage dei giornali, e la loro attenzione dura in media meno di tre secondi.
In quel brevissimo tempo, il titolo deve catturare, sorprendere, colpire.
E per riuscirci, i media italiani, di qualunque orientamento, attingono sempre più al sensazionalismo, all’emozione, allo stereotipo.
La fabbrica dei titoli

“L’Espresso”, “Panorama”, “Epoca”, “L’Europeo”: mondi diversi, ma un’unica filosofia.
Il titolo doveva colpire, sì, ma con intelligenza.
Non serviva urlare: bastava alludere.
Una frase ben calibrata, un proverbio rivisitato, una citazione rubata al cinema o alla politica.
Il titolo era il sorriso sotto i baffi del giornalismo italiano — pungente, misurato, mai banale.

I titoli come meme ante litteram
A guardarli oggi, quei titoli erano meme ante litteram.
Un modo per dire “sappiamo tutti di cosa stiamo parlando” senza bisogno di spiegarlo.
Un titolo come “La classe scioperaia” non era solo una battuta: era un sentimento condiviso, un modo per leggere la notizia attraverso la complicità del linguaggio.

Negli anni ’80, quei giochi di parole erano veri e propri meme analogici: battute che catturavano l’attualità, offrendo uno sguardo comune sul mondo.
Oggi quel ruolo lo hanno i meme digitali, che con un linguaggio visivo, istantaneo e globale costruiscono in un lampo un’interpretazione della realtà.
Sembrano sciocchi solo perché ne circolano milioni, spesso basati su cliché o comicità facile, e perché la logica degli algoritmi premia l’esagerazione e la semplificazione.
Ma non è lo strumento in sé a essere banale — come non lo era un titolo poco riuscito — bensì l’uso che se ne fa.

Quella forma d’ironia era molto più di un vezzo stilistico. Serviva a sdrammatizzare — a rendere digeribili crisi e scandali.
A normalizzare — riportando i potenti alla misura umana. E, talvolta, a distorcere in senso buono: a raccontare la realtà attraverso l’umorismo, per poterla affrontare senza esserne schiacciati.
Era una comicità gentile, popolare, profondamente italiana: quella di chi preferisce ridere per non piangere.

Oggi molto moralismo
Oggi quel sottile modo di comunicare con i lettori sembra scomparso, sostituito dal moralismo o dal tifo di stile calcistico. Abbiamo confuso essere seriosi con l’essere seri.
Il titolo non strizza più l’occhio: punta il dito. Non suggerisce, accusa.
Il lettore non è più un complice, ma un bersaglio da conquistare. Si lavora per il clic, il SEO, il posizionamento.
E così, tra “shock”, “bufera” e “clamoroso”, si è perso il piacere del titolo intelligente , quello che non aveva bisogno di gridare per farsi ricordare.