La ‘ndrangheta va in montagna
Tra cantieri e società di comodo, la ’ndrangheta ha imparato a non farsi vedere. Ma non se n’è mai andata.
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Capire la mafia: tornare indietro per guardare avanti
Per comprendere davvero i fenomeni mafiosi, non basta osservare il presente. Bisogna tornare alle origini: ai legami familiari, alle rotte migratorie, alle economie che si sono intrecciate tra Nord e Sud, tra mare e montagna, tra fabbriche e cantieri. La storia della criminalità organizzata in Italia è anche una geografia del potere: seguire le sue tracce significa ripercorrere un viaggio nello spazio e nel tempo, in cui le mappe dei clan si sovrappongono a quelle delle regioni e i legami di sangue si fondono con quelli economici.
Giovanni Falcone ricordava che “per capire la mafia bisogna seguire i soldi”. Ma nel caso della ’ndrangheta, il denaro da solo non basta: bisogna seguire anche le genealogie, le parentele, i vincoli di origine che uniscono paesi calabresi distanti centinaia di chilometri dai territori in cui oggi le cosche operano. Ogni “locale” di ’ndrangheta al Nord è l’eco di una comunità d’origine al Sud, un’estensione familiare che ha trovato nuovi spazi economici e sociali senza mai recidere il filo con la Calabria.
Studiare la presenza mafiosa in regioni come Piemonte e Liguria significa affrontare un doppio itinerario, storico e geografico: da un lato la migrazione calabrese del dopoguerra, che ha portato con sé anche reti di potere; dall’altro, il modo in cui i due territori – attraversati da autostrade, porti e cantieri – sono diventati crocevia di economie legali e illegali. Comprendere come la mafia si radichi in contesti apparentemente estranei alla sua cultura originaria significa leggere non solo la cronaca giudiziaria, ma anche le trasformazioni socio-economiche di un Paese che ha visto, spesso, le proprie linee di sviluppo coincidere con le rotte del capitale, legale e non.
Tornare indietro, dunque, non è un esercizio di memoria ma un metodo d’indagine: risalendo ai paesi dell’Aspromonte e della Locride, ai flussi migratori verso Torino e Genova, alle prime imprese edili e ai subappalti ferroviari, si capisce come la ’ndrangheta sia riuscita a trasformarsi da struttura familiare in rete imprenditoriale globale.
La ’ndrangheta a Bardonecchia nel 1995
Bardonecchia, elegante località dell’Alta Val di Susa, a pochi chilometri dal confine francese, rappresenta da sempre l’immaginario della montagna piemontese: piste innevate, chalet e turismo internazionale. Ma dietro questa immagine da cartolina si cela una delle pagine più significative della storia criminale del Nord Italia: la prima infiltrazione mafiosa accertata a livello istituzionale.
Nel 1995, per la prima volta, un consiglio comunale del Nord fu sciolto per mafia. Le indagini rivelarono un intreccio profondo tra amministratori pubblici e imprese legate alla ’ndrina Lo Presti, originaria di Marina di Gioiosa Ionica. Le radici del fenomeno, però, affondavano già negli anni Cinquanta, quando molte famiglie calabresi – tra cui i Lo Presti e i Mazzaferro – si trasferirono in Val di Susa per lavorare nei cantieri e nell’edilizia. Sotto la superficie dell’economia montana, si consolidò un sistema di potere che univa affari, politica e controllo del territorio.
Negli anni Ottanta e Novanta le imprese riconducibili ai clan ottennero appalti e concessioni pubbliche, costruendo consenso economico più che imponendo violenza. Come evidenziano le analisi dell’ISTAT e del Censis, negli ultimi dieci anni la presenza di imprese legate alla criminalità organizzata nel Nord-Ovest è cresciuta del 18%. In contesti montani, dove gli investimenti pubblici sono ingenti e il tessuto sociale più frammentato, la mafia trova terreno ideale per operare in silenzio, mimetizzandosi nell’economia legale.
La montagna che resiste
Eppure Bardonecchia è anche un simbolo di riscatto. La villa di via Medail 43, confiscata alla famiglia Mazzaferro, è oggi una casa per ferie gestita da associazioni e gruppi scout: un bene restituito alla collettività, trasformato in luogo di educazione civica. Le istituzioni locali hanno imparato la lezione, introducendo protocolli di trasparenza e collaborazioni stabili con la Prefettura e la DIA.
La lotta alla mafia, qui, non si combatte solo nei tribunali ma anche nei consigli comunali, nei cantieri, nelle scuole. La montagna è diventata un laboratorio di legalità, dove la memoria si intreccia con l’impegno quotidiano.
Il ritorno silenzioso delle cosche
A trent’anni dallo scioglimento del Comune, le indagini tornano a puntare Bardonecchia. Le recenti operazioni “Echidna” e “Alpino”, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Torino tra il 2024 e il 2025, hanno portato a oltre trenta rinvii a giudizio e nove arresti per presunte infiltrazioni nei cantieri dell’autostrada A32 e della linea ferroviaria Torino–Lione. Gli investigatori parlano di “un ritorno silenzioso delle cosche”, nascosto dietro società apparentemente pulite, prestanome e capitali riciclati in attività lecite.
Le imprese mafiose oggi non impongono più con la forza, ma con la mimetizzazione economica. “Acquistano terreni, partecipano a subappalti, impongono fornitori ‘amici’ e ottengono così una duplice legittimazione, legale e sociale”, spiegano gli inquirenti. Secondo il Ministero dell’Interno, nel 2024 erano oltre 140 le aziende piemontesi monitorate per sospette infiltrazioni mafiose, un terzo delle quali concentrate tra Torino e la Val di Susa.
‘Ndrangheta silente e liquida
“La mafia si è evoluta, passando dai reati tradizionali a nuovi business con profitti maggiori e rischi minori, diventando una mafia ‘silente e liquida’”, ha dichiarato Tommaso Pastore, capo centro della DIA di Torino. “L’infiltrazione nella filiera degli appalti e nel settore produttivo è una strategia sempre più utilizzata, insieme alla creazione di un’economia chiusa. L’uso della violenza è sempre più residuale, sostituito da strategie di infiltrazione silenziosa e azioni corruttive”.
Pastore ha sottolineato come “le mafie preferiscano investire capitali illeciti in attività affaristico-imprenditoriali – riciclaggio, appalti, giochi, scommesse, rifiuti – e come cambi anche il ruolo degli imprenditori, da estorti a collusi”. L’evoluzione tecnologica, con l’uso di comunicazioni crittografate e social media, ha reso le organizzazioni più fluide e difficili da individuare.
“La ’ndrangheta è la forma di criminalità più radicata in Piemonte – ha aggiunto Pastore – con forti legami nella sfera socio-economica e sinergie con altre organizzazioni criminali”. L’inchiesta “Minotauro” ha documentato la presenza di nove “locali” in Piemonte, oggi più che raddoppiati, attivi in tutte le province.
Mafie e corruzione: un fenomeno sottovalutato
Secondo la ricerca Liberaidee di Libera Piemonte, la percezione della mafia nella regione resta distorta. Pur considerata grave, solo un terzo dei piemontesi la ritiene socialmente pericolosa. Per la maggioranza è un fenomeno “altrove”, globale ma non vicino. Quando si chiede cosa tolga la mafia, prevalgono risposte morali – libertà, giustizia, fiducia nelle istituzioni – mentre pochi percepiscono effetti su lavoro e ambiente.
Sul fronte della corruzione, oltre la metà degli intervistati la considera “abbastanza diffusa”, ma solo il 12,7% “molto diffusa”. La paura delle conseguenze e la sfiducia nella giustizia restano le principali ragioni del silenzio.
Anche le associazioni datoriali mostrano una certa rimozione: solo sette su dodici hanno accettato di partecipare alla ricerca, e molte valutano la presenza mafiosa in base al numero di denunce, ignorando i processi in corso.
Il Piemonte, pur essendo la seconda regione del Nord per beni confiscati, è l’ultima per riutilizzo sociale: delle 483 particelle sottratte alle mafie, solo 114 sono state destinate o riutilizzate. Il tempo medio tra confisca e assegnazione supera i cinque anni.
Una presenza radicata e silenziosa
In Piemonte la ’ndrangheta non è più un’ombra lontana: è una realtà radicata, strutturata e diffusa, capace di inserirsi stabilmente nel tessuto economico e sociale. La Procura Nazionale Antimafia stima circa venticinque famiglie operative, con epicentro nell’area metropolitana di Torino.
Le inchieste più recenti raccontano una rete criminale che si è mimetizzata tra imprese, cantieri e attività commerciali. Le famiglie Ursini e Belfiore, originarie di Gioiosa Jonica, sono storicamente radicate nel Torinese, mentre nel Canavese agiscono gruppi come i Forgione, gli Speranza e i Mancuso. Altri collegamenti emergono con i clan Ruga e Gioffré, a conferma di una rete interregionale stabile.