“Totò Di Gangi? Lo arrestai nel 1994”

Il generale Sandulli, allora comandante della Compagnia Carabinieri di Sciacca, racconta l’indagine che portò in carcere il fedelissimo di Riina trovato morto a Genova sui binari di Principe

Genova – “Quando comandavo la Compagnia di Sciacca, in provincia di Agrigento, l’ho avuto come principale indagato in una nostra attività antimafia che venne denominata Operazione Avana“.
Comincia così il racconto dell’uomo che arrestò Totò Di Gangi, il boss trovato morto sabato sera sui binari della ferrovia che collega la stazione Principe a quella di Brignole. A Genova il padrino era arrivato in treno da Asti, appena scarcerato dopo una perizia che ne attestava un deficit cognitivo.

“All’epoca non era solo il capo della famiglia mafiosa di Sciacca, era capomandamento e soggetto di alto livello perché filo corleonese” svela Sandro Sandulli, già capocentro della Dia genovese e allora comandante dei Carabinieri di Sciacca.
“Al termine della seconda guerra di mafia – spiega -, Di Gangi si era apertamente schierato con la frangia dei corleonesi e in questo senso manteneva rapporti anche con le famiglie mafiose di Castelvetrano e del resto del trapanese, così come con quelle dell’area della provincia di Agrigento”. Insomma, la levatura del soggetto era notevole tanto che “aveva rapporti strettissimi con molti esponenti di rilievo di Cosa Nostra come i Brusca o lo stesso Matteo Messina Denaro, attualmente ricercato numero uno a livello nazionale”, ricorda Sandulli.

Le prime intercettazioni ambientali effettuate in Sicilia

Tutto partì da alcuni omicidi che insospettirono il comandante e la sua squadra di giovani carabinieri perchè impossibili da eseguire senza l’autorizzazione del clan che presidiava il territorio. Tra i morti, in effetti, c’era il capomafia di Villafranca Sicula, comune nell’entroterra di Sciacca che rientrava nel mandamento di Di Gangi. Da qui l’inizio delle indagini “che videro, per la prima volta in Sicilia, l’uso delle intercettazioni ambientali”. Lo rivela Sandulli ripercorrendo le tappe che fecero finire in manette il boss di Sciacca: “Le microspie riuscimmo a collocarle durante una perquisizione all’interno della sede di una società, la Conglomerati bituminosi Sciacca Terme, che capimmo essere il luogo dove maggiormente si concentravano i soggetti mafiosi. E così per noi si aprì un mondo”.
Sì perchè la famiglia di Sciacca parlava, “e non solo delle questioni mafiose del posto. Come mandamento si relazionavano anche con i corleonesi e con le famiglie mafiose di Castelvetrano, di Marsala, di Agrigento, e quindi si riuscì ad ottenere uno spaccato della realtà mafiosa di quell’epoca assolutamente di rilievo e di grande importanza per quel contesto che era assolutamente sconosciuto perchè mentre a Palermo c’erano i collaboratori di giustizia – fa notare Sandulli -, ad Agrigento non si pentiva nessuno”.
Questo consentì agli inquirenti di dimostrare il 416-bis: “È difficile che i mafiosi parlino per telefono e quindi si rende molto più complicato concretizzare il reato di associazione mafiosa, cosa che invece l’ambientale ci ha facilitato”.

Quell’albergo di famiglia dove Riina passò il capodanno

“Non so se con Riina fossero amici, di certo lui sosteneva la linea di comando dei corleonesi”, spiega Sandulli che poi precisa che nell’Hotel Torre Macauda, resort di lusso confiscato al clan che Di Gangi si è ripreso dirigendo l’iniziativa dal carcere, Riina ci avesse passato una festa di capodanno. Di più. A gestire il complesso turistico c’era l’imprenditore Giuseppe Montalbano, il proprietario della villa-covo di via Bernini, a Palermo, dove Riina è stato arrestato.

La soddisfazione del clan per gli omicidi di Falcone e Borsellino

Sono passati 27 anni dall’Operazione Avana ma Sandulli ricorda ancora con orrore il compiacimento del clan per gli omicidi di Falcone e Borsellino, e parla battendo l’indice sulle pagine dell’informativa che porta la sua firma: “Nelle conversazioni che ascoltavamo noi non emergeva la volontà di portare a compimento le stragi di Capaci e via D’Amelio, ma all’indomani degli omicidi i commenti furono certamente di grande soddisfazione”. Un fotogramma delle intercettazioni che la dice lunga sul boss di Sciacca.

L’arresto e la latitanza

Due anni dopo la morte dei magistrati del pool di Palermo, Totò Di Gangi finiva in carcere: “Tutto l’impianto accusatorio resse sia in primo che in secondo grado. Poi in Cassazione Di Gangi fu condannato a una pena detentiva di 10 anni”. Lo chiarisce Sandulli aggiungendo che “dopo un anno fu scarcerato per un vizio di forma e si diede alla latitanza. Alla fine venne arrestato a Palermo nel 1999”, quattro anni più tardi.
Lo scorso ottobre, il boss aveva ricevuto in carcere l’ultimo avviso di garanzia proprio per l’operazione dell’hotel Macauda, quello che la sua famiglia aveva messo a disposizione dei corleonesi.
Resta da chiarire un particolare: che c’entra l’Avana con tutta questa storia? Ora sorride, Sandulli, mentre racconta che “zù Totò nelle intercettazioni veniva chiamato anche Lu sicàrru perchè fumava il sigaro e allora ho deciso di chiamare l’indagine così, come il più famoso dei sigari”.
Simona Tarzia
Simona Tarzia

Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.