Lanzichenecchi

Alain e la madeleine

Lo dico subito, e a scanso di equivoci: Alain Elkann non mi ha mai fatto palpitare. Troppo belloccio, troppo raffinato, troppo snob, troppo ricco, con quella ostentata nonchalance che, non a caso, può praticare solo chi è troppo accasato. Perciò dirò fin da subito che non è tanto quello che è riuscito a scrivere a rendermi mal disposto nei suoi confronti, quanto che l’oggetto delle sue riflessioni sia stato pubblicato su uno dei quotidiani di proprietà del suo figliolo John. E, per giunta, sia comparso proprio su quello che, almeno storicamente, leggono i cosiddetti progressisti. Sempre che ancora i progressisti esistano.

Insomma non mi hanno stupito affatto il vestito in lino stazzonato, come se il maggiordomo non avesse provveduto a dovere, o invece come se anche lui, in fondo comune mortale, non dovesse inchinarsi agli effetti indesiderabili del gran caldo e all’afa di questi giorni. Né ha saputo stupirmi con quella cartella in cuoio, con i giornali in lingua inglese, con la stilografica in mano. E neppure per il libro di Marcel Proust. Non a caso, in voga di banali messaggi subliminali e metafore, “A la recherche du temps perdu”.
E comunque io avrei evitato di titolare l’articolo: “Sul treno per Foggia con i giovani Lanzichenecchi”. Probabilmente avrei optato per una cosa un po’ più ironica, sempre che il signore in questione ne sia dotato, sino ad abbracciare l’autoironia. Insomma avrei imposto un titolo diverso… tipo “Alain e la madeleine”, che implicitamente rimandava a Proust e alla sua recherche, magari lasciando anche spazio a quel retrogusto di ricordo dolciastro che nulla avrebbe a che fare con l’afrore dei treni in questo clima di gran caldo. Prima o seconda classe, a parer mio non c’è una grande differenza.

Un semplice racconto d’estate

E tantomeno avrei cercato di edulcorare con il sommario: “Un gruppo di ragazzi poco educati e un signore con i capelli bianchi che usa carta e penna, legge Proust e i giornali in inglese protagonisti di questo racconto d’estate  di Alain Elkann”, forse l’estremo tentativo di un malcapitato caporedattore, o chi per lui, di prendere le distanze da un articolo pubblicato, probabilmente, per esclusiva volontà dell’editore. Editore verso il quale, di lì a qualche ora, avrebbe preso le distanze anche il comitato di redazione – l’organo di rappresentanza sindacale dei giornalisti – del quotidiano, definendolo un articolo classista. E già, la classe. Che certo, non è acqua.

La riprova perfetta che, come da qualche settimana titola lo stesso quotidiano, con questo governo, e in questo difficile periodo storico di difficoltà economiche e di tensioni sociali anche i sindacati di una categoria potente e definita talvolta “casta”, finiscono per contare sempre meno.

Così quel semplice racconto classista, di un’estate classista, ha fatto il botto. Suscitando commenti e reazioni di ogni tipo. Fra racconti, raccontini, è comparso sui social persino un articolo quasi surreale che vorrebbe ironicamente essere l’altra faccia della medaglia. E cioè raccontare di quel bel pezzo d’antiquariato con i capelli bianchi che nonostante il caldo indossa pantaloni lunghi e giacca di lino, sprovvisto di zaino, ma con al braccio una costosa borsa di cuoio cucita a mano – magari dai bimbi del terzo mondo – che tira fuori la mazzetta di giornali in lingua inglese e, contraddittoriamente, legge il libro di un’autore francese brandendo una stilografica con la quale, magari, annota su un quadernetto frasi di una banalità sconcertante. Del tipo: “Però che caldo che fa anche in prima classe nonostante vi sia l’aria condizionata. E ancora: “Quando passa il controllore devo ricordarmi di suggerirgli di abbassare ancora un po’ la temperatura. Altrimenti dovrò togliermi la giacca e rimboccarmi le maniche… ma che non sia mai. Non voglio mischiarmi con quei ragazzetti in t-shirt e calzoni corti”. Con tanto di sottotitolo: “Ma poi perchè mai anche ai troppo giovani viene consentito di viaggiare in prima classe?“. Eggià, che, come dicevo poche righe sopra: la classe non è acqua.

Molinari–direttore-La Repubblica

Istigazione al terrorismo e alla lotta armata

Il mio amico e collega Giovanni Giaccone in un post sul suo profilo e con la solita ironia ci mette la pietra tombale: “Una serie di riflessioni di Alain Elkann che possono essere rubricate come istigazione al terrorismo e alla lotta armata”. Anche se poi i soliti maldicenti azzardano che il tutto non sia frutto di un equivoco e si tratti soltanto di un grosso scherzo… tipo articolo del Primo d’aprile che nei quotidiani per celia comparivano una volta in prima pagina. E che poi, magari, verrà fuori che sarà stato quel gran buontempone del direttore a essersi divertito a prendere per i fondelli i proprietari editori. Magari proprio allo scopo di salvarsi da presenze troppo ingombranti. Con quell’istinto francamente suicida che oggi aleggia fra la categoria dei giornalisti che si rivolgono ai progressisti. Quelli in Lacoste rossa e con il Rolex al posto. Tipo quelli che sul treno per Foggia leggono Proust, il Finacial Times, sfoggiano improbabili abiti di lino e cartelle in cuoio grasso e detestano il turpiloquio giovanile. Giusto come fossero cresciuti in qualche sacrestia o bazzichino qualche sezione di partito, o peggio i migliori salotti sabaudi. Uno scherzo con il fine di far parlare della testata e di far esplodere il web.

Passano i giorni ma il direttore de “La Repubblica” Maurizio Molinari tace, ed anzi… messo al corrente del comunicato del C.D.R  in cui si prendono le distanze dal canuto padre dell’editore, si dice spiacente di non poter pubblicare il pensiero dei suoi giornalisti, perché contrario alla linea editoriale.

Ed anche il caso specifico meriterebbe qualche ragionamento in merito alla voce che il direttore dovrebbe avere proprio sulla linea editoriale del giornale che dirige, essendone per definizione il responsabile e il primo garante. E comunque qualora si trovasse in aperto conflitto con quanto gli chiede l’editore può sempre stupire tutti con gli effetti speciali…. dimettendosi.

Una volta funzionava così, e i grandi direttori, quando gli editori osavano chiedere troppo si dimettevano. Magari non sbattendo troppo la porta. Però se ne andavano. Almeno una volta funzionava così, quando c’erano editori puri e chiusa una porta, con un direttore che faceva il grande gesto di dimettersi perché in contrasto con quanto gli chiedeva l’editore, si apriva un portone. Una volta quando non si parlava ancora di concentrazione delle testate. Poi se ne è parlato a tempo debito demonizzandola. E siamo arrivati al difficile mercato attuale. Oggi le testate sono concentrate nelle mani di due, massimo tre, società editoriali. E il dimettersi, evidentemente, per direttori e colleghi comporta una serie di rischi gravosi.

Il tutto causato dal curioso testacoda desta la sensazione che alla fine i veri Lanzichenecchi, quelli del Sacco di Roma, ciurmaglia o soldatini mercenari di cui parlava il buona Alain de la Madeleine, non siano quei ragazzi troppo giovani per aver studiato la storia. Al contrario la massa senza grande coscienza finiamo per essere  proprio noi che come soldatini solerti eseguono a qualsiasi costo, anche del pubblico ludibrio, gli ordini dell’editore.

E per finire mi capita di ascoltare in macchina Radio DJ. Nel programma centrale della mattinata anche Linus e Nicola,  inciampano, a giorni di distanza, sul caso Elkann. Con Nicola che incalza. E Linus, il direttore, che frena, frena, frena. E una volta parlavano dell’epopea delle radio libere, oggi anche loro non a caso sono inquadrate fra ascolti e introiti pubblicitari nelle scuderie dei grandi editori. Non a caso la famiglia Elkann.

Il G8, questo sconosciuto

E, insomma… dalle radio libere alle Tv locali il passo è breve. Anche loro, una volta, garanzia del pluralismo dell’informazione. Fucina e miniera di giovani talenti, cresciuti in bottega o in batteria, da lanciare su un mercato in espansione. Colleghi con quel “brutto” vizio… di fare informazione. Senza guardare in faccia niente e nessuno. Vizio magari pericoloso, ma se una porta si chiudeva poteva poi aprirsi un portone.

Prendete per esempio l’onorevole Ilaria Cavo, prima alle dipendenze del Governatore Giovanni Toti, e ormai deputata, ma collega con una carriera sfolgorante. Dal G8 direttamente agli ordini di Bruno Vespa, alla ribalta di Porta a Porta, in Rai.

Lei deve molto all’intuizione del suo primo editore Maurizio Rossi a PrimoCanale, alle prese ventidue anni fa, con l’occasione della vita, quella di dare copertura dell’evento del G8 che ha consentito di mettersi in luce ad una redazione allora giovanissima con Ilaria Cavo fresco direttore e volto televisivo.

Lode a Ilaria e a Maurizio che in un documentario di Sky, realizzato in occasione del ventennale del G8, compaiono più giovani di vent’anni. Lui con il ciuffo ribelle e un’improbabile camicia a quadretti bianchi e verdi – tipo tavola da pizzeria – e lei ricciutissima con occhialini da vista neri. E poi ricompaiono lei, con la capigliatura ancora riccia, nel suo ufficio di assessore in Regione, e lui con frezza bianca e in doppiopetto gessato sartoriale, in perfetto stile manager.

Bello quel documentario. O forse no… magari parziale e di parte. Un po’ zoppicante per chi c’era e per chi quell’evento lo ha vissuto e non ne condivide la narrazione complessiva. Epperò fra le manifestazioni pacifiche, fra le violenze della polizia e dei Black Block, fra le esternazioni di Don Gallo e di Franca Rame davanti alla zona rossa e la tragedia del povero Carlo Giuliani, c’è solo la redazione di Primo Canale che racconta. I giornalisti di allora, quelli che c’erano e quelli che in qualche caso hanno cambiato emittente. Perfino quelli di un altro giornale che non c’è più, etichettati soltanto con la scritta sottopancia PrimoCanale.

G8 di Genova

Problemi di narrazioni

Problemi evidenti di narrazione, termine quanto mai di moda da contrapporre ad un altro termine: informazione. A ribadire che la narrazione, volenti o nolenti, rappresenta un punto di vista in qualche modo parziale e che magari l’obbiettività nemmeno è prevista. Perciò nel documentario in questione sembra che a fare informazione sia stato soltanto PrimoCanale, con le altre emittenti, anche quelle nazionali costrette costantemente a rincorrere. E forse fu effettivamente così. Dipende, come sempre,  dai punti di vista. Ma giuro di aver partecipato dalla redazione del mio giornale, assaltata e assediata dai Black Block, pronti a rifornirsi di benzina per le molotov al distributore lì sotto, e in procinto di andare all’attacco del carcere di Marassi per liberare i colleghi arrestati. Giuro anche di aver ascoltato la lunga cronaca in diretta dell’assalto, durato oltre un’ora, mentre i nuclei delle forze dell’ordine sbagliavano strada, del collega Andrea Ferro. Giuro che il collega che ha consentito ad una altro giovane giornalista – ormai emigrato per lavorare in un’altra città – in crisi respiratoria per i lacrimogeni di riprendere fiato allungandogli un limone, allora lavorava al Corriere Mercantile. Prima di approdare dopo la definitiva chiusura della storica testata genovese all’Ansa, a TeleNord e infine a PrimoCanale.

E giuro che dopo la morte di Giuliani c’è stata ancora l’irruzione alla Diaz, le violenze dei poliziotti sui manifestanti e quelle sugli arrestati alla caserma della Mobile, a Bolzaneto. C’è stato l’impegno del sindaco di allora Beppe Pericu per ottenere dai ministri che frequentavano la Questura che le violenze cessassero e non avessero seguito. E ci fu poi l’inchiesta dei magistrati. I vari processi ai violenti e al carabiniere Placanica per aver sparato uccidendo il povero Giuliani.

Narrazioni parziali, con la sensazione disturbante che in fondo a venti anni di distanza si trattasse non tanto di un documento quanto di uno spottone per l’emittente che oggi gode dei favori del Governatore Giovanni Toti.

Tanto che qualche giorno fa la stessa, in occasione dell’ennesimo triste anniversario, l’emittente replica intervistando l’ex giornalista e attualmente onorevole Ilaria Cavo su quei giorni di ventidue anni fa. E l’onorevole parla del documentario di Sky come di un grande prodotto. Consentitemi di non essere d’accordo. E, tanto per restare in tema, di contraddire almeno un po’ anche Alain de la Madeleine, pur concedendoci entrambi alla ricerca del tempo che fu. Perchè i Lanzichenecchi alla fine non sono quei ragazzi che fanno casino in treno e parlano di “figa”, di come procurarsela e di calcio. Magari sono Lanzichenecchi pure loro anche loro, a cominciare dal principe Andrea a Ciro, ad Apache. Perchè poi non sono l’agiatezza, o solo i soldi a fare tutto il resto. O il vestito in lino la stilo e la borsa di cuoio. In fondo è una questione di sostanza e di aria che si respira. Di ambienti, di insegnamenti. Insomma i veri Lanzichenecchi, soldatacci… o miseri soldatini mercenari, che non mettono mai in dubbio gli ordini di scuderia, siamo diventati proprio noi. Ah… non tutti. Magari soltanto la maggior parte. Insomma quelli che finiscono per mentire per non rischiare lo status.

Paolo De Totero

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *