Sarà tre volte Natale

E ci risiamo con il Tricapodanno e avrà un bel dire mister Marco Bucci di essere l’inventore, l’ideatore, il pensatore – legittimo o meno – di questa formula tutta lustrini, red carpet, girandoline, ombrellini e musica che ci proietterà sul palcoscenico nazionale allo scoccare della mezzanotte

Epperò mi viene da dire che prima di lui c’era chi, in un certo qual modo faceva finta di farneticare in una lettera ad un caro amico – e perpetrando la formula del tre numero perfetto – che addiritturà … sarà tre volte Natale. E comunque chi meglio di Lui che come raccontava in 4 marzo 1943: “E ancora adesso che gioco a carte e bevo vino per la gente del porto mi chiamo Gesù bambino”.
Già farneticazioni, forse. Oppure la descrizione di una realtà distopica, tra il surreale e l’immaginario racchiusa nella lettera confidenziale ad un amico. Come se il Natale Trino dovesse corrispondere più o meno al Tricapodanno. Niente più che un’operazione di marketing tesa a convincere il popolo che in fondo tutto va bene madama la marchesa.
Erano quegli anni lì. Esattamente il 1978, non a caso l’anno del rapimento di Aldo Moro e del ritrovamento del suo cadavere. Sono partito per svolgere il servizio di leva il 15 maggio, proprio qualche giorno dopo il ritrovamento del corpo in via Caetani, poco distante dalle sedi del partito comunista e della democrazia cristiana. E anche nelle caserme di leva si respirava una grande tensione, visibile anche dall’esterno con turni di guardai rinforzati e sacchi di sabbia a tutte le finestre che si affacciassero sulla strada. Non a caso in caserma, ma non soltanto la canzone del momento era proprio “ l’anno che verrà” di Lucio Dalla.
Non fosse altro che per quei versi: “Si esce poco la sera compreso quando è festa/E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra/ E si sta senza parlare intere settimane,/ E quelli che hanno niente da dire/ Del tempo ne rimane”: Sarà stato per quell’incipit: “Caro amico ti scrivo” che ci rappresentava bene. Più o meno reclusi in caserma e divisi fra lettere e telefoni a gettone per avere notizie e darne di sè all’esterno. Oppure per quel clima di attesa e speranza nel cambiamento di una situazione difficile per il Paese fra dilagare del terrorismo, la morte naturale di papa Paolo VI e quella misteriosa del suo successore Giovanni Paolo I, le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, sospettato di corruzione e la sicurezza esibita dal Governo in un calo dell’inflazione per il 1979 (salirà invece quasi al 20 per cento).
Mi è tornato alla mente quel periodo dei miei 25/26 anni proprio ieri quando ho letto della morte di Luigi Zerbini, collega che pur fra le marginali frequentazioni, ho sempre pensato fosse non soltanto un ottimo giornalista ma addirittura un fratello maggiore che, insieme a qualche altro della redazione de “Il Lavoro” allora in cooperativa con sede nel palazzo dietro la Provincia in salita Dinegro, mi ha insegnato la professione e mi ha orientato influendo in maniera molto importante nel suo svolgimento.
Ieri lo avevo salutato così sul mio profilo social: “Stamattina ho appreso con dolore la scomparsa di un collega che ha avuto una importanza fondamentale per il lavoro che ho svolto e per la mia successiva vita giornalistica. E non solo per me, credo, ma per molti giornalisti che hanno mosso i primi passi nella fucina de “Il Lavoro”, giornale in cooperativa degli anni settanta. E un po’ mi ha stupito i soli quattro anni di età che ci dividevano. Insomma negli anni settanta (1975) io avevo giusto 22 anni e bussavo timidamente alla porta di salita dinegro e lui a 26 anni, diventato da poco professionista, cercava di tenere unita tutta una scapigliata e giovane redazione di cronisti. Lo incrociavo nei corridoi sempre gentile e disponibile e poi avevano la possibilità di vederlo in azione alla sua scrivania in compagnia di Raffaele Niri, quando con capacità e fantasia provvedevano a titolare gli articoli che sarebbero andati in pagina.
La nostra pagina di competenza, quella dei quartieri, nelle mani di Raffaele Niri, tutta scritta da giovani collaboratori “aspiranti” giornalisti come ci definiva scherzosamente Gaetano Fusaroli, caporedattore dell’Ansa ch qualche ano prima si era inventato con l’aiuto della Regione una scuola di giornalismo da cui è uscita tutta una generazione di colleghi giornalisti. Perchè allora il mestiere, o meglio la professione, si imparava sul campo, come per un artigiano in bottega. E servivano i buoni maestri. Coloro che con spirito di sacrificio fossero disponibili a insegnarti non soltanto l’arte dello scrivere, ma anche come rivolgersi alle fonti, come fare le domande giuste, quali dovessero essere le cose da mettere in risalto per supportare un articolo. Con fare un titolo, un sommario, una semplice didascalia. Ma anche come scegliere una fotografia.
C’è un libro che racconta di tutte queste persone con le quali almeno per un paio di anni quasi quotidianamente si è incrociata la mia vita. Allora tutti giovani, oggi un po’ meno.
Li ho ricordati tutti nelle pagine di un mio libro uscito due anni fa. A loro resto molto legato perchè è grazie a loro e con loro che ho imparato la professione e con loro sono in debito per la pazienza e la disponibilità che mi hanno dedicato.
Per questo grazie Gigi, grazie pere quel tuo carattere docile con il quale hai insegnato a tutti con grande passione e sempre con estrema gentilezza, senza urla nè strepiti ma sempre con indicibile pazienza. Grazie per avermi dimostrato come si può essere il leader di una squadra esercitando soltanto l’autorevolezza”.
E istantaneamente mi è tornata in mente quella canzone di Dalla che mi risuonava in testa in quel periodo di naja. Il caro amico avrebbe potuto davvero essere lui perchè avevamo sensibilità comuni. E poi se ne è andato proprio nell’imminenza del Natale. Ma avrebbe potuto essere benissimo lui anche quaratacinque anni fa, lui insieme a Raffaele Niri altro collega al quale devo molto nell’apprendimento della professione. Raffaele, l’ideatore della pagina dei quartieri che aveva capito prima di altri il valore del decentramento amministrativo e che occorreva dare un taglio al senso di distanza della gente/dei lettori dai palazzi della politica.
Purtroppo “Caro amico ti scrivo” che al mio ritorno dalla Naja il clima a “Il Lavoro” era un po’ cambiato – o forse ero io a ritrovarmi cambiato – e così un po’ ho resistito e poi ho compreso che se proprio desideravo fare quella professione avrei dovuto cambiare aria e testata. E così ho provato in un’altro giornale in cooperativa: “Il Corriere Mercantile”.
Ho avuto la fortuna di poter portare al nuovo giornale tutto lo spirito de Il Lavoro di allora. Iniziando tutto da capo ma con quella fortuna di aver potuto comprendere tra Lavoro ed Eco di Genova un sacco di cose. E finalmente ho potuto occuparmi anche della politica locale, perchè scriverne è sempre stata una mia grande aspirazione.
Perciò ringrazio Gigi, ringrazio Raffaele. Provo persino gratitudine per quell’anno di interruzione forzata che probabilmente mi ha consentito di realizzare meglio quanto sia stato importante quel periodo di apprendistato.
Perchè poi questa lunga e triste esercitazione di autocoscienza? Un po’ per rendere merito a una scuola e ai giovani/giovanissimi docenti di allora e a molti di loro che sono scomparsi. Li ricordo tutti con quella straordinaria voglia di darti qualche cosa della loro esperienza, disponibili all’insegnamento, autorevoli ma mai, mai in cattedra per autocompiacersi.
Molto di più perchè compiuti i settanta anni, in pensione ormai da 11, eppure interessato a tutto ciò che avviene nel mondo dell’informazione tramutato sempre più nel mondo della comunicazione, mi ci ritrovo sempre meno. E penso – lo dicevo oggi a Paolo, il fratello di Gigi, l’unico sopravvissuto di una genia di giornalisti, mi piacerebbe che consentissero ai pensionati di raccontare che cosa è stata la nostra professione negli anni in cui nella nostra città venivano prodotti quattro giornali e gli editori non erano società per azioni, ma il più delle volte imprenditori genovesi.
Al… “sarà tre volte capodanno” – con musica, cotillon e pailettes , red carpet, girandoline e ombrellini, led e lucine e proiezioni sui palazzi storici istituzionali – mi sento di dire che preferisco il Sarà tre volte Natale di una lettera distopica ad un cario amico. E anzi mi basta anche un solo Natale. Unico e più concreto e senza tanti voli pindarici. Perchè quel gusto per l’esagerazione che Dalla utilizzava in maniera satirica come si trattasse di un gas tranquillante, da spargere nell’aria e nell’ambiente in un periodo per tanti versi complicato, mi ricorda tanto la realtà distopica di questi giorni. Con quel gusto per l’esagerazione e poca concretezza. In cui la comunicazione prova ad avere la meglio sull’informazione.
Paolo De Totero

Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta

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