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Le mani invisibili delle cosche

Dentro le nuove alleanze tra Camorra, ’Ndrangheta e Cosa Nostra. Storie, intrecci e segreti di un potere che non dorme mai.

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Nel mondo di oggi, le alleanze non si stringono più nei sotterranei o nelle masserie isolate.
Non ci sono più giuramenti di sangue né santini bruciati al lume di candela.
Le mafie del terzo millennio preferiscono le hall d’albergo di Milano, i ristoranti sul lago di Lugano, le chat criptate.
È il tempo delle alleanze liquide, dove conta la fiducia operativa più del vincolo di sangue.

La ’Ndrangheta è la forza motrice: controlla i porti, parla con i cartelli sudamericani, investe in logistica e trasporti.
La Camorra è la rete: distribuisce la merce, garantisce piazze di spaccio e manodopera.
La Cosa Nostra è la banca: ripulisce, reinveste, consolida.

Le grandi inchieste degli ultimi vent’anni lo raccontano con chiarezza.
L’operazione “Crimine–Infinito” del 2010 ha svelato la struttura nazionale della ’Ndrangheta, capace di muoversi in Lombardia con la stessa disciplina militare di San Luca.
L’indagine “Pesci”, nel Mantovano, ha mostrato come la mafia calabrese avesse costruito una rete economica di copertura con imprese locali e appoggi politici.


Ma è stata l’operazione “Hydra”, coordinata dalla DDA di Milano nel 2025, a usare per la prima volta l’espressione “mafia a tre teste”: un’unione di fatto tra Camorra, ’Ndrangheta e Cosa Nostra, attiva negli appalti, nel riciclaggio e nel traffico di droga nel Nord Italia.

È la fotografia di un sistema che non conosce confini geografici.
Un cartello del Sud che si è fatto rete del Nord, con i capitali della finanza e le protezioni della politica.

Ma le alleanze non nascono come i funghi

Ci vogliono anni per costruirle, per superare le diffidenze, per capire fino a che punto ci si può fidare.
Ogni patto nasce da un equilibrio fragile tra potere, paura e convenienza.
E ogni storia lascia una traccia — anche se minima.

Il funerale silenzioso

Aspromonte, 1992.
La bara di un vecchio boss scende tra due file di uomini in giacca scura. Nessuno parla.
Tra i fiori, due corone attirano l’attenzione dei carabinieri in borghese: una porta la firma “Gli amici di Palermo”, l’altra “I fratelli di Napoli”.
È un gesto simbolico, ma nel linguaggio delle mafie vale più di un contratto.
Un modo per dire che l’asse Sud non si è mai spezzato.

L’incontro di Nizza

Estate 1988, hotel sul lungomare.
Da una parte un emissario dei Piromalli, dall’altra un uomo dei Nuvoletta, clan campano vicino ai Corleonesi.
Si siedono a un tavolino appartato, scambiano poche parole.
Sul tavolo passa un foglio, forse una lista di nomi, forse cifre.
Uno dei due lo brucia in un posacenere d’argento.
“Così non resta traccia.”
L’accordo riguarda appalti e forniture tra Calabria e Campania: la spartizione silenziosa di un impero.

La voce di Milano

Nel 2004, un’intercettazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano catturò la voce di un esponente dei Casalesi.
I calabresi comandano, noi distribuiamo, i siciliani contano i soldi.”
Una frase semplice, quasi didascalica, che i magistrati definirono “la miglior definizione della cooperazione criminale contemporanea”.

Il nuovo impero invisibile

Oggi i clan non combattono più per i territori. Combattono per i mercati.
Gli affari sono globali, digitali, invisibili: trasporti, logistica, rifiuti, edilizia, gaming online.
L’operazione “Sistema Genovese” ha mostrato come la ’Ndrangheta, insieme a referenti campani e siciliani, avesse infilato le mani negli appalti pubblici tra Liguria e Lombardia, spartendosi le commesse con precisione chirurgica.

È un mondo dove il piombo non serve più: bastano le fatture, le consulenze, le coperture.
Le tre mafie non si sovrappongono, si completano.
La ’Ndrangheta gestisce il traffico internazionale, la Camorra distribuisce e reinveste, la Cosa Nostra cura i rapporti e tiene in ordine i conti.

Un sistema efficiente, freddo, senza più ideologia né romanticismo criminale.
Solo numeri, rotte e contatti.
E mentre la cronaca racconta gli arresti di piccoli spacciatori, le vere alleanze — quelle che contano miliardi — restano sommerse, nascoste tra le pieghe della legalità.

Le mafie non sono sparite. Si sono solo fatte invisibili.

Gli strumenti dello Stato: inadeguati al nuovo campo di battaglia

Sulla carta, gli investigatori italiani dispongono di una delle migliori legislazioni antimafia al mondo — dal 41-bis al Codice Antimafia, fino al sistema di confisca dei beni introdotto dopo le stragi del ’92.
Il problema è che la mafia è cambiata più in fretta delle leggi.

Oggi le cosche non sparano, investono.
Non controllano più solo il territorio, ma il flusso dei capitali. E mentre i reparti investigativi (come la DIA, i ROS o la Guardia di Finanza) restano molto competenti sul piano operativo e militare, spesso mancano risorse e formazione economico-finanziaria.
Le indagini patrimoniali, infatti, sono complesse: richiedono esperti di finanza, informatica, criptovalute, società offshore, competenze che pochi reparti hanno in modo strutturato.

Un alto ufficiale della Guardia di Finanza, in un’intervista a L’Espresso, lo ha riassunto così:

“Possiamo seguire il denaro in Italia, ma quando attraversa due confini diventa un fantasma.”

Magistrati in trincea: consapevoli, ma isolati

La maggior parte dei magistrati antimafia — da Nicola Gratteri a Catello Maresca, senza scordare l’ex magistrato Federico Cafiero de Raho — denunciano da anni l’insufficienza degli organici e la lentezza dei flussi informativi tra procure diverse.


Ogni distretto antimafia lavora ancora in modo troppo separato, e il coordinamento tra DDA regionali spesso arriva dopo, non prima dei fenomeni criminali.

Il risultato è che le mafie sono globali, mentre le indagini restano locali.

Molti magistrati, inoltre, ammettono una difficoltà di lettura:
il traffico di droga o il riciclaggio attraverso società di comodo non sempre viene immediatamente percepito come “mafioso”, perché manca la violenza, manca l’estorsione classica.
Serve una cultura giudiziaria nuova, capace di riconoscere la mafia anche quando non si mostra come mafia.

Il nodo delle risorse e della volontà politica

Infine c’è il tema economico: le mafie oggi fatturano più di molte multinazionali.
Secondo la Direzione Nazionale Antimafia, il giro d’affari complessivo supera i 40 miliardi di euro l’anno.
Contro queste potenze, lo Stato destina budget ridotti e organici sottodimensionati: la Direzione Investigativa Antimafia ha circa 4000 agenti in tutta Italia  (dato non verificale da fonti ufficiali), obiettivamente pochissimi per indagare su fenomeni mafiosi ormai silenti ma fortemente compenetrati nelle maglie della società.

A  questo si aggiunge una certa stanchezza istituzionale: l’antimafia non è più tema da prima pagina, e la priorità politica è altrove.
Gli investigatori ci sono, i magistrati anche — ma mancano gli strumenti finanziari, la tecnologia, la cooperazione internazionale rapida.

 Un paradosso amaro

Le mafie si sono modernizzate più velocemente dello Stato.
Sono diventate aziende multinazionali capaci di muovere denaro, corrompere e infiltrarsi senza sparare un colpo.
E mentre la società civile pensa che “la mafia non esiste più”, loro fanno profitti da economia parallela, in borsa, nel mattone, nei rifiuti, nel web.

Come ha scritto Roberto Saviano:

“La mafia non ha bisogno di dominare, le basta partecipare.”

E oggi partecipa, eccome.

Fivedabliu.it

Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta

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