Dal bordello al matrimonio: la metamorfosi della ‘ndrangheta nei confronti delle donne
Dalle case di tolleranza dell’Ottocento ai matrimoni combinati tra clan, la storia della ‘ndrangheta è anche una storia di dominio sul corpo femminile: da merce di scambio a simbolo sacro dell’onore familiare.
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Un potere che nasce dal corpo
Per capire la ‘ndrangheta di oggi — ossessionata da onore, matrimonio e fedeltà femminile — bisogna tornare molto indietro. Non agli anni dei sequestri o delle guerre di mafia, ma al cuore rurale dell’Ottocento calabrese, tra la Piana di Gioia Tauro e l’Aspromonte, dove le prime confraternite criminali si muovevano in un mondo povero, arcaico e feroce.
Lì il potere passava anche dal corpo delle donne. Erano strumenti di piacere, merce di scambio, collante sociale. La prostituzione non era un tabù: era un’economia. E il pappone — figura oggi infamante — allora poteva essere un “uomo di rispetto”.
Alla fine del secolo, nelle stesse terre dove oggi si celebrano matrimoni dinastici tra cosche, i bordelli erano parte integrante del sistema mafioso. Gli affiliati si muovevano tra taverne, prigioni e case di tolleranza: spazi di reclutamento, di alleanze, di violenza.
Un affare sporco
Cosa Nostra, la mafia siciliana, si vantava di non “toccare” la prostituzione. “Un uomo d’onore non fa il magnaccia”, diceva Antonino Calderone, collaboratore di giustizia negli anni Ottanta.
Ma non era sempre stato così.
Anche in Calabria la distanza tra regola e pratica era sottile. Se oggi la ‘ndrangheta considera il fare il “protettore” un disonore, nell’Ottocento non era raro che i capi vivessero dei guadagni delle proprie donne o gestissero bordelli.
Un episodio emblematico: nel 1982, a Torino, settecento affiliati vennero convocati per un’assemblea straordinaria. Molti calabresi al Nord facevano i papponi, un’attività dichiarata “disonorevole”. La decisione fu drastica: chi non avesse smesso, sarebbe stato espulso o ucciso.
Un divieto recente, nato dopo un secolo di tutt’altra pratica.
Le donne e il crimine: più che vittime
Nel 1892, al tribunale d’assise di Palmi, due donne — Concetta Muzzopapa e Rosaria Testa — furono condannate per rapine a mano armata. Si erano travestite da uomini, avevano giurato fedeltà alla società mafiosa incidendosi un dito. Non erano eccezioni.
Nei processi di fine secolo, i nomi femminili compaiono spesso. Non come comparse, ma come protagoniste di un universo criminale dove sesso, violenza e potere si intrecciavano.
Il corpo delle donne era al tempo stesso oggetto di dominio e strumento politico: le mogli siglavano alleanze tra famiglie, le prostitute rafforzavano le gerarchie interne. Il piacere era un linguaggio di potere.
Prostituzione e Stato: due forme di controllo
Intanto lo Stato regolava la prostituzione in modo altrettanto invasivo.
Dal 1860 al 1958 — fino alla legge Merlin — le prostitute dovevano registrarsi presso la polizia, sottoporsi a visite mediche, lavorare in case chiuse autorizzate.
Chi sfuggiva ai registri finiva spesso nelle mani dei papponi o dei criminali. Nel Mezzogiorno, tra povertà e assenza di controlli, la prostituzione clandestina era la norma.
Tra i vicoli di Napoli e le campagne calabresi, la criminalità organizzata trovò terreno fertile: il corpo femminile come risorsa economica e come segno di dominio.
Il processo Ricevuto: la “madame” di Rosarno
Tutta questa ambiguità emerge con chiarezza nel processo Auteri Felice + 229, celebrato a Catanzaro nel 1901.
Tra i 230 imputati c’era Carmine Ricevuto, contadino e capo di una rete criminale nella Piana di Gioia Tauro. La sua banda rubava bestiame, praticava estorsioni e si iniziava con riti di sangue. Ma gestiva anche prostitute.
Nei verbali spuntano storie di matrimoni forzati, vendette, sfregi. E una figura che spicca su tutte: Marina Lemma, “una donna di straordinaria influenza nella società criminale”, come scrisse il giudice.
Gestiva una casa di tolleranza a Rosarno, frequentata da capi come Francesco Giancotta e Domenico Giuliano. Non era solo un bordello: era una centrale operativa, dove si decidevano rapine e alleanze.
“Una donna intelligente e spregiudicata”, la definì il giudice. Attraverso donne come lei, la ‘ndrangheta intrecciava sesso, potere e affari.
Dal bordello alla famiglia
Ma nel giro di pochi decenni tutto cambiò.
Già negli anni Venti la parola “prostituzione” scompare dai fascicoli giudiziari calabresi.
La stessa organizzazione che aveva tratto forza dal sesso ora lo rimuoveva.
Il fascismo, con il suo controllo rigido e moralista, ridusse gli spazi di affari. Ma la vera trasformazione fu culturale.
La ‘ndrangheta divenne sempre più familiare: non più confraternita di braccianti e papponi, ma rete dinastica di sangue.
I matrimoni tra clan diventarono strumento di alleanza politica. La sessualità femminile passò da risorsa collettiva a bene privato.
Il corpo della donna smise di essere fonte di guadagno e divenne confine sacro dell’onore.
Verginità, fedeltà, maternità: simboli della legittimità del clan. Il tabù del lenocinio nacque così, non per moralità, ma per potere.
La donna come confine del potere
Nella ‘ndrangheta moderna, l’antico sfruttamento si è trasformato in controllo.
Le donne raramente siedono ai vertici, ma sono centrali nel mantenere l’ordine interno: amministrano denaro, trasmettono messaggi, educano i figli al codice mafioso.
E quando tradiscono — o semplicemente amano fuori dal clan — vengono punite.
Il loro corpo non è più venduto, ma sorvegliato. Non più merce, ma simbolo.
L’onore si misura nella custodia, non nel possesso. Ma la logica è la stessa: dominio maschile travestito da morale.
“Calati juncu ca passa a hiumara”
Durante il fascismo, la ‘ndrangheta imparò a piegarsi senza spezzarsi.
“Calati juncu ca passa a hiumara” — piegati, giunco, finché passa la piena.
Mentre in Sicilia il prefetto Mori dava la caccia ai mafiosi, in Calabria le cosche restavano silenziose, adattandosi al regime e mantenendo i propri legami con latifondisti e funzionari.
Uscirono dal fascismo più forti e invisibili.
E quando, nel dopoguerra, la legge Merlin cancellò i bordelli, al loro posto restò la famiglia: chiusa, sacra, violenta.
Un tempio in cui il corpo delle donne è insieme reliquia e prigione.
Una storia che cambia linguaggio, non sostanza
Dal bordello al matrimonio, la ‘ndrangheta ha trasformato il controllo femminile da forma economica a forma simbolica.
Il pappone è diventato patriarca, la prostituta moglie devota, la casa di tolleranza casa familiare.
Ma il filo non si è spezzato: è solo cambiato il linguaggio.
La violenza che un tempo si consumava nei vicoli di Rosarno oggi vive tra le mura domestiche, sotto la maschera dell’onore.
È la stessa storia — solo più silenziosa.
Bibliografia
“An Underestimated Criminal Phenomenon: The Calabrian ‘Ndrangheta” di L.Paoli
European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice Volume: 2 Issue: 3 Dated: (1994) Pages: 212-238
MAFIA AND PROSTITUTION IN CALABRIA, c. 1880-c. 1940, Dickie, JohnPast & present, 2016-08 (232), p.203