Escalation Israele-Palestina: venerdì ci sarà l’attacco finale ad Hamas?

ll conflitto palestinese-israeliano è caratterizzato da una storia complessa di occupazione, resistenza e tentativi di pace e una lunga scia di sangue

In un ultimo aggiornamento, l’esercito israeliano ha confermato oggi il bilancio di 1.200 morti e oltre 2.700 feriti per l’attacco condotto sabato scorso da Hamas nello Stato ebraico. Le vittime sono “in maggioranza civili”, spiega il portavoce delle Forze di difesa israeliane (IDF), il tenente colonnello Jonathan Conricus, in un video pubblicato su X.
L’aumento nel numero delle vittime “non è dovuto al fatto che ci siano combattimenti in corso” ma piuttosto perchè ” stiamo scoprendo corpi di israeliani morti nelle varie comunità in cui Hamas si è infiltrato e dove ha condotto i massacri”.

Fonti palestinesi

Fonti palestinesi riportano che gli attacchi israeliani hanno causato la distruzione della casa di Mohammed Deif, ritenuto il capo degli attacchi di Hamas contro Israele. Tuttavia, Deif sembra essere sopravvissuto all’attacco, mentre alcuni membri della sua famiglia, tra cui suo fratello, suo figlio e sua nipote, sono morti nell’operazione. Altri parenti di Deif sono rimasti intrappolati tra le macerie.

Colpi contro l’Infrastruttura di Hamas

L’esercito israeliano ha compiuto ulteriori attacchi mirati per indebolire le capacità operative di Hamas. Uno di questi colpi ha distrutto un sistema di rilevamento aereo utilizzato da Hamas per monitorare gli aerei israeliani sulla Striscia di Gaza. Questo evento può essere interpretato come una preparazione a un’offensiva su larga scala, prevista per il fine settimana, che potrebbe includere sia attacchi aerei che terrestri.

Armare i cittadini, questo l’appello di un ministro israeliano

Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben Gvir, ha fatto un’appello provocatorio, suggerendo che la distribuzione di armi ai cittadini israeliani potrebbe essere necessaria per far fronte a una possibile insurrezione. Ben Gvir ha sottolineato che questa misura è stata adottata in risposta a disordini avvenuti nel maggio 2021, che si sono trasformati in violenze in alcune città israeliane con una popolazione mista di ebrei e arabi. Questo annuncio suggerisce un crescente allarme per l’ordine pubblico all’interno di Israele.

Gaza resterà senza corrente

“L’unica centrale elettrica della Striscia di Gaza e unico attuale fornitore di elettricità resterà senza carburante tra 10 o 12 ore”.  Così, Thafer Melhem, presidente dell’Autorità palestinese per l’energia, aveva dichiarato all’emittente radiofonica Voice of Palestine, dichiarazione ripresa dal Gurdian. In realtà, notizia di qualche decina di minuti fa,  il capo dell’autorità di Gaza per l’energia, Jalal Ismail ha dichiarato che la centrale elettrica di Gaza smetterà di funzionare completamente alle 14 di oggi, le 13 in Italia.

Distruzione dell’Università Islamica a Gaza

Gli aerei da guerra israeliani hanno bombardato un campus dell’Università Islamica di Gaza, associata a Hamas. Questo evento ha sollevato preoccupazioni sulla sicurezza degli studenti e il deterioramento delle infrastrutture educative nella regione.

L’ex Capo dello Shin Bet: “Questo attacco è destinato a cambiare il volto di Israele”

Lo dice in un’intervista a Le Figaro, ripresa dal Fatto Quotidiano, Ami Ayalon che è stato capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni di Israele, dal ’95 al 2000, e poi parlamentare eletto col Partito laburista, dal 2006 al 2009 . ”
È la prima volta dalla creazione dello Stato ebraico che centinaia di civili vengono massacrati, assassinati nelle loro case, sul nostro territorio. Ci vorranno degli anni per comprendere l’impatto a lungo termine causato dall’orrore e dalla paura generati da questi eventi. Abbiamo creato uno Stato per difenderci. Abbiamo investito un’enorme quantità  di denaro per assicurarci che il nostro esercito fosse il più forte ed efficace. Questa sicurezza è crollata il 7 ottobre 2023″.

Ami Ayalon ha poi voluto puntare il dito sulle mancanze del controspionaggio. “C’è stato un enorme fallimento delle nostre agenzie di intelligence. A Gaza, tutta l’intelligence era basata sulla sorveglianza elettronica. Ma i leader dell’ala militare di Hamas, come il loro capo, Mohammed Deif, sanno come comunicare senza telefono e Internet”. Gran parte della responsabilità  “ricade ovviamente sul governo”.

“I comandanti di tutte le agenzie di sicurezza avevano avvisato il governo che la politica che stava portando avanti era sbagliata e che sarebbe stata usata dai nostri nemici contro di noi. Il governo israeliano ha fatto di tutto perchè Fatah e l’Autorità palestinese non fossero più dei partner, e ha dato il potere ad Hamas. Si è tollerato l’intollerabile lasciando che Hamas si armasse alle nostre porte dal 2006. Hamas è un’organizzazione molto strutturata, è un’ideologia e un movimento sociale”.

Per Ayalon un’operazione via terra è inevitabile a Gaza ma “prima di attaccare, dovremmo dire che vogliamo costituire un dialogo con i palestinesi, che accettino le iniziative di pace e che vogliano discutere con noi dei due Stati. Penso, però – sottolinea – che nessun governo israeliano accetteà  mai di farlo in questo momento”.

La mattina del 7 ottobre: un attacco di Hamas coglie Israele di sorpresa

Nel pieno dei festeggiamenti della settimana di Sukkot, o festa dei tabernacoli, la mattina del 7 ottobre, un attacco inaspettato di Hamas è stato lanciato dalla Striscia di Gaza, gettando Israele in un caos imprevedibile. Mentre molti ebrei israeliani si dirigevano alle sinagoghe per festeggiare la Simchat Torah, la festa conclusiva della Sukkot, migliaia di razzi provenienti da Gaza erano lanciati verso le regioni del centro e del sud di Israele.
Tuttavia, ciò che rende questa escalation senza precedenti è che i miliziani di Hamas sono riusciti a sfondare il recinto che separa Israele dalla più grande prigione all’aperto del pianeta, la Striscia di Gaza, per iniziare un’operazione terrestre e prendere il controllo di alcune località nel sud del Paese.

La giustificazione di Hamas

Hamas ha giustificato l’operazione come risposta alla crescente violenza dei coloni negli ultimi mesi e alla recente violazione del complesso di Al-Aqsa, terzo luogo sacro per l’islam dopo Mecca e Medina, ma anche sacro per gli ebrei in quanto Monte del Tempio. Questa escalation ha causato la morte di almeno 700 israeliani e migliaia di feriti.

La risposta di Israele: l’operazione “Spade di Ferro”

In risposta all’attacco di Hamas, decine di aerei israeliani hanno preso il volo e colpito la Striscia di Gaza nel tentativo di colpire obiettivi militari di Hamas. Nonostante non siano ancora noti i dettagli sul numero di vittime causate dai bombardamenti israeliani a Gaza, è inevitabile che ci siano un gran numero di civili tra le vittime. Nel frattempo, gli scontri tra membri di Hamas e le Forze di Difesa Israeliane continuano in diverse località israeliane.

Una crisi profondamente radicata: la Striscia di Gaza

Hamas è il prodotto naturale di una situazione innaturale.
La Striscia di Gaza è una piccola regione costiera di appena 365 km², abitata da più di 2 milioni di persone, di cui oltre 1,4 milioni hanno lo status di rifugiati.
Dal 1967 al 2005, questa zona è stata occupata militarmente da Israele.
Nel 2007, Hamas ha preso il controllo della Striscia, e da allora Israele ha imposto un blocco quasi totale dei valichi di frontiera, sia via mare che per via aerea. Oggi, oltre l’80% della popolazione di Gaza sopravvive grazie agli aiuti umanitari, mentre il tasso di disoccupazione si avvicina al 50%. La chiusura dei valichi ha reso estremamente difficile la crescita economica e la ricostruzione dopo i devastanti interventi militari israeliani degli ultimi anni.

L’operazione israeliana in Cisgiordania

Sull’altro fronte della Palestina infatti, il 4 luglio 2023, le truppe israeliane avevano messo in atto una caccia all’uomo nella città di Jenin, sequestrando anche materiale esplosivo e munizioni, dopo che bulldozer militari avevano sfondato diversi vicoli e migliaia di residenti sono fuggiti in cerca di riparo. Lo stesso giorno a Nord di Tel Aviv otto persone erano rimaste ferite in un attentato condotto da un furgone uscito di strada che travolse alcuni passanti.
In quell’occasione il movimento islamico palestinese Hamas aveva elogiato l’attacco, definendolo “la prima risposta ai crimini dell’occupazione contro il nostro popolo a Jenin”.

Sempre in quell’occasione le forze aeree israeliane bombardarono due postazioni nella Striscia di Gaza, in risposta al lancio di almeno cinque razzi, tutti intercettati dal sistema di difesa Iron Dome, dall’enclave costiera palestinese. L’escalation iniziata il 7 ottobre arriva dunque al culmine di un processo di inasprimento delle tensioni.
Il 2022 è stato l’anno più sanguinoso per i palestinesi della Cisgiordania dalla fine della Seconda intifada (2000-2005). Il 2023 sembra destinato a battere questo macabro record.

Le tensioni interne in Israele

Nel dicembre del 2022, Israele è entrato in una nuova fase di turbolenza politica e tensione interna, complicando ulteriormente un panorama regionale già instabile. L’ascesa di un governo guidato da Benjamin Netanyahu, noto per la sua leadership di orientamento conservatore e di destra, ha innescato una serie di proteste e tensioni all’interno del Paese.

Dopo che la coalizione di destra, nella quale il suo partito, il Likud, ha svolto un ruolo chiave, ha ottenuto una maggioranza di 65 seggi su 120 alle elezioni parlamentari, Benjamin Netanyahu è diventato il capo di uno dei governi più conservatori e di destra nella storia di Israele. I partiti che compongono questa coalizione sono noti per le loro posizioni conservatrici e ultraortodosse, che spesso vanno in conflitto con l’idea della “soluzione a due Stati” nel conflitto israelo-palestinese. Questa formula prevede l’istituzione di uno stato palestinese nella Cisgiordania, accanto a Israele, come parte di un accordo di pace.

La politica coloniale di Netanyahu

Tra le prime decisioni prese dal governo di Netanyahu vi è stata la legalizzazione di nove colonie israeliane in Cisgiordania e l’approvazione di nuove costruzioni di colonie. Queste decisioni hanno sollevato preoccupazioni e critiche a livello internazionale, in quanto la comunità internazionale considera le colonie israeliane nei territori palestinesi illegali e l’ostacolo principale alla soluzione del conflitto.

Inoltre, il parlamento israeliano ha varato una legge che prevede la revoca della cittadinanza o del permesso di residenza non solo per coloro che sono condannati per atti di terrorismo, ma anche per chiunque riceva sostegno finanziario dall’Autorità Nazionale Palestinese. Questa legge ha sollevato preoccupazioni tra i cittadini arabi-israeliani, che temono che possa essere utilizzata per ridurre i loro diritti e le loro libertà.

Reazioni e proteste

Le politiche del governo di Netanyahu hanno scatenato un’ondata di proteste all’interno del paese. Molti cittadini israeliani, inclusi ebrei progressisti e cittadini arabi-israeliani, si sono uniti alle manifestazioni per esprimere la loro opposizione alle politiche del governo. Le proteste sono state caratterizzate da una varietà di richieste, tra cui mettere fine alla colonizzazione in Cisgiordania, il rispetto dei diritti dei cittadini arabi-israeliani e una soluzione pacifica al conflitto con i palestinesi.

L’OLP, Hamas, la Prima Intifada e gli Accordi di Oslo

Con l’occupazione da parte di Israele della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est nel 1967, emersero numerosi movimenti politici che avevano all’interno un braccio armato. Alcune di queste, il Jihad Islamico Palestinese (PIJ, fondato nel 1981) e Hamas (fondato nel 1987), decisero di non aderire alla politica di distensione promossa dal progetto dell’OLP e si opposero militarmente a Israele.

Hamas è il prodotto di una realtà complessa e controversa, un movimento di resistenza palestinese nato in risposta all’occupazione israeliana e alle difficoltà socio-economiche che la popolazione palestinese ha affrontato nel corso degli anni.
Hamas ha le sue radici nella Fratellanza Musulmana, un movimento islamico fondato in Egitto da Hassan Al Banna. La Fratellanza ha svolto un ruolo significativo nel sostenere la causa palestinese durante la Rivolta Araba del 1936 e il conflitto arabo-israeliano del 1948. Questo impegno autentico ha guadagnato il sostegno dei palestinesi e ha contribuito a gettare le basi per la futura crescita della Fratellanza e di Hamas.

La riorganizzazione della Fratellanza e l’ascesa di Hamas

Negli anni ’70 e ’80, la Fratellanza Musulmana palestinese si riorganizzò e intensificò la sua attività politica, specialmente nelle università. La creazione del Centro Islamico nel 1973 e l’accento sulla soluzione a uno stato e sull’importanza del ritorno all’Islam contribuirono a rafforzare la Fratellanza.
Esasperati dal mancato riconoscimento delle proprie aspirazioni nazionali, nel 1987 i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania cominciarono una serie di proteste contro l’occupazione israeliana. Questi atti assunsero presto le dimensioni di una vera e propria sollevazione popolare – la Prima Intifada – che si protrasse fino al 1993 e portò alla morte di più di 1900 palestinesi e di 200 israeliani.

L’ascesa di Hamas e la Prima Intifada

L’ascesa di Hamas è strettamente legata alla Prima Intifada. In questo contesto, la Fratellanza Musulmana si trovò in una disputa ideologica e decise di creare un nuovo movimento, Hamas, per partecipare alla lotta armata. La vittoria dell’Intifada portò alla crescita dell’influenza di Hamas, che si trasformò in una forza politica e militare rilevante.

L’ascesa di Hamas coincise anche con una politica di maggior apertura da parte dell’OLP – l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – guidata da Fatah, quando verso la metà degli anni ’80, rinunciò ufficialmente al suo obiettivo a lungo termine di liberare la Palestina “dal fiume al mare” riconoscendo Israele e il suo diritto di esistere, e abbandonando la lotta armata come sua strategia principale.
In quel momento, l’OLP sperava di riconquistare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza attraverso un accordo con Israele, con il progetto di creare uno stato palestinese indipendente.
Questo cambiamento portò agli Accordi di Oslo del 1993, poi falliti, ma che videro la nascita, nel 1994, dell’Autorità Palestinese, organismo di autogoverno per guidare la Striscia di Gaza e le aree A e B della Cisgiordania

Al contrario, Hamas persistette nell’uso della lotta armata come sua strategia principale, ponendosi come alternativa a Fatah e ricalcando la politica armata dell’OLP degli anni ’60.

Hamas contro gli accordi di Oslo

Hamas si oppose all’accordo con Israele, sottolineando l’idea che gli Accordi di Oslo servivano gli interessi israeliani e compromettevano i diritti palestinesi. Mentre i rappresentanti palestinesi e israeliani stavano negoziando all’inizio degli anni ’90, Hamas e il PIJ – il Palestinian Islamic Jihad – lanciarono una serie di attentati suicidi, una tattica mai utilizzata in precedenza da nessuna fazione palestinese.

Questi attacchi sconvolsero i centri urbani di Israele e sollevarono dubbi sulla capacità della neo-costituita Autorità Palestinese guidata da Fatah di governare la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.

Entro il primo decennio dopo gli Accordi di Oslo, la maggior parte dei palestinesi si sentiva frustrata per i risultati della pace. La vita quotidiana palestinese era diventata sempre più difficile e la costruzione di insediamenti israeliani su terre palestinesi continuava a espandersi, con conseguente deterioramento della situazione politica e della sicurezza, che portò alla Seconda Intifada palestinese del 2000.

Ideologia di Hamas: tra religione e politica

L’ideologia di Hamas è un ibrido tra religione e politica, dove la resistenza armata è vista come parte integrante della lotta per la liberazione palestinese. Hamas promuove la consultazione popolare e il consenso nelle decisioni politiche, cercando di equilibrare il libero arbitrio umano e il disegno divino. Questo approccio crea una teoria politica unica che non si identifica né come teocrazia né come democrazia.

La politica di resistenza di Hamas

Dopo aver ottenuto una significativa percentuale dei voti nelle elezioni del 2006, Hamas ha cercato di regolare l’economia informale di Gaza, dimostrando un’elevata disciplina interna. Nonostante l’assedio continuo, i mercati di Gaza hanno prosperato in questo periodo. Questa “nuova economia” organizzata da Hamas ha contribuito a consolidare il sostegno dei suoi seguaci.

Hamas: una svolta controversa nel 2006

Come dicevamo, nel 2006, il movimento di resistenza islamica Hamas ha fatto un passo significativo nella sua storia politica, portando ad una svolta controversa che ha scosso il panorama politico palestinese e internazionale. Questa svolta andava in direzione contraria alla linea politica e al credo religioso che aveva portato Hamas a rifutare le soluzioni dell’accordo di Oslo.

Hamas, noto anche come Harakat Al-Muqawama Al-Islamia, aveva sempre mantenuto una posizione chiara e ferma contro la negoziazione di una soluzione politica con Israele. La sua ideologia e il suo impegno per la resistenza armata contro l’occupazione israeliana avevano reso Hamas riluttante ad aderire all’Autorità Palestinese (AP), l’entità politica che era nata in seguito agli Accordi di Oslo.

Tuttavia, nel 2006, Hamas decise di partecipare alle elezioni del Consiglio Legislativo Palestinese (CLP), un accordo firmato al Cairo nel 2005 con altre fazioni palestinesi, tra cui Fatah, segnando una svolta importante nella sua linea politica.

I dubbi sul ruolo di Hamas

Questa decisione scatenò una serie di interrogativi, perché il dubbio che l’ideologia di Hamas potesse essere incompatibile con il sistema politico palestinese era forte, come erano fondati i sospetti che Hamas avrebbe avuto difficoltà a collaborare con altre forze all’interno dell’Autorità palestinese. In secondo luogo, c’era la preoccupazione su come l’ingresso di Hamas avrebbe influenzato il funzionamento e i riferimenti dell’AP stessa.

Hamas e la sua vocazione militare

Le posizioni politiche di Hamas, espresse attraverso i discorsi dei suoi leader e il suo Statuto del 1988, riflettono le sue identità islamiche e militari. Il movimento ha sempre respinto la possibilità di negoziare una soluzione politica con Israele e ha sostenuto l’uso dell’azione militare come mezzo strategico per eliminare l’occupazione, creando tensioni significative nel conflitto palestinese-israeliano e contribuendo a mantenere lo stallo nel processo di pace.

L’ascesa per la prima volta al governo in Israele di Netanyahu nel 1996, assieme ad altri fattori, finì però per bloccare i negoziati sulle questioni lasciate aperte dagli Accordi e, di conseguenza, per assestare un duro colpo al processo di pace.

Dalla Seconda Intifada agli accordi di Abramo 

Lo stallo nei negoziati contribuì a infiammare nuovamente i Territori palestinesi tra il 2000 e il 2005, con lo scoppio della Seconda Intifada.
Rispetto alla prima, questa fu molto più violenta e portò alla morte di quasi cinquemila palestinesi e più di mille israeliani. Nel 2002, nel pieno della sollevazione popolare palestinese, Israele cominciò la costruzione di un muro di separazione tra i propri territori e quelli palestinesi in Cisgiordania. L’obiettivo dichiarato era quello di controllare gli spostamenti per impedire l’organizzazione di attacchi terroristici a danno della popolazione israeliana.

La Linea Verde

Il tracciato del muro non rispettava però la Linea Verde (stabilita nel 1949 fra Israele e il regno di Giordania), discostandosi in alcuni casi di decine di chilometri. Secondo le autorità israeliane lo scopo del muro era quello di contribuire alla sicurezza del paese ma la sua costruzione ha avuto, e continua ad avere, un impatto devastante sulla vita dei palestinesi. Di fatto il muro impedisce il passaggio delle merci, e l’embargo di Israele verso la Striscia ha aumentato lo stato di povertà dei palestinesi.
Se a questo si aggiunge il controllo armato dei militari israeliani che applicano le regole a modo loro, si finisce per morire colpiti dai cecchini mentre si raccolgono le verdure.

Esperienza diretta l’abbiamo avuta anche noi quando siamo stati “avvertiti” con un colpo di fucile perché eravamo arrivati a circa 600 metri dalla recinzione che divide Gaza da Israele.

L’espansione delle colonie

Israele continua a mantenere una consistente presenza militare in Cisgiordania, dove negli ultimi vent’anni ha anche accelerato la sua politica di espansione delle colonie, città e insediamenti israeliani in territorio palestinese che, lo ripetiamo, la comunità internazionale ritiene illegali.

A dispetto del peggioramento della situazione nei Territori, negli ultimi anni i rapporti tra Israele e gli altri Paesi della regione sono sensibilmente migliorati. Risale al 2020, infatti, la firma dei cosiddetti Accordi di Abramo, ovvero gli accordi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco (oltre che il Sudan). Negli ultimi tre anni, l’interscambio tra questi paesi e Israele è cresciuto notevolmente, ma una soluzione al conflitto israelo-palestinese, che le parti nell’Accordo si impegnavano a promuovere, rimane ancora lontana.

I coloni sono un problema per la pace

Nel 1997, un anno dopo l’inizio del primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro d’Israele, i coloni in Cisgiordania erano circa 150.000.
Nel 2023 sono diventati 450mila. A questi si sommano altri 220mila coloni residenti a Gerusalemme Est situati oltre la Linea Verde, che costituisce un’ulteriore fonte di tensioni nel conflitto israelo-palestinese.
Uno dei fattori chiave che ha contribuito a questo rapido aumento demografico dei coloni è l’incremento della popolazione ultra-ortodossa.

Questi i dati ufficiali che però non tengono conto degli insediamenti illegali noti come “avamposti”, che sono stati costruiti senza il consenso del governo israeliano. Secondo l’organizzazione pacifista israeliana “Peace Now,” ci sono circa 97 avamposti illegali in tutta la Cisgiordania. La presenza di questi avamposti è stata oggetto di controversia e spesso ha scatenato conflitti con la popolazione palestinese.
Il Governo Israeliano ultimamente ne ha legalizzati 9, aumentando le tensioni soprattutto nella cittadina palestinese di al-Lubban Ash-Sharqiya, vicino a Nablus, dove i coloni attaccano gli studenti palestinesi che vanno a scuola vicino alla Road 60.
Il processo di pace ostacolato dai coloni

Il rapido incremento dei coloni in Cisgiordania solleva importanti questioni legate al conflitto israelo-palestinese e alle prospettive di una soluzione a due Stati. La presenza crescente di coloni rende sempre più complicato delineare i confini di uno stato palestinese indipendente e rappresenta una sfida significativa per la ricerca di una soluzione pacifica.

La Nakbah

La questione dei rifugiati palestinesi risale alla Nakbah, ovvero l’esodo forzato di circa 700mila arabi palestinesi durante la guerra del 1948-49.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) definisce “rifugiato palestinese” una persona “il cui normale luogo di residenza è stata la Palestina tra il giugno 1946 e maggio 1948, che ha perso sia l’abitazione che i mezzi di sussistenza a causa della guerra arabo-israeliana del 1948”.

Sei milioni di rifugiati

Oggi i rifugiati palestinesi sono quasi sei milioni e sono dislocati in tutta la regione e non solo.
Oltre un terzo vive in campi profughi in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania, nella striscia di Gaza e a Gerusalemme Est. Ad oggi l’unico stato ad averli pienamente integrati e ad aver loro riconosciuto pieni diritti di cittadinanza è la Giordania.
La questione dei rifugiati è inoltre uno degli ostacoli a ogni soluzione negoziale al conflitto: la risoluzione 194 dell’Assemblea generale dell’ONU sanciva infatti il loro diritto al ritorno nei territori del Mandato di Palestina.

La questione del diritto al ritorno non è però mai stata affrontata in sede negoziale. Israele, infatti, teme il ritorno dei palestinesi poiché modificherebbero la demografia dello stato, aumentandone radicalmente la popolazione araba e diminuendo in percentuale quella ebraica. Ciò aumenterebbe verosimilmente il supporto politico verso i partiti arabi presenti nel parlamento israeliano che rappresentano gli arabi di nazionalità palestinese e cittadinanza israeliana.

Venerdì l’atto finale?

Hamas, nonostante l’appoggio dell’Iran non riuscirà a fermare la repressione israeliana. D’altronde, come più volte abbiamo sostenuto, Hamas è il male assoluto per i palestinesi.

Chi ne farà le spese saranno i civili. E i danni collaterali saranno donne, vecchi e bambini. Quelli costretti a vivere di stenti nella Striscia di Gaza, che non è più occupata da Israele ma da Hamas. Perché chi non ha mezzi di sostentamento, dal 2006 ha solo cambiato padrone.

Venerdì, secondo alcune nostre fonti, ci sarà la durissima controffensiva di Israele, anche via terra, e a morire saranno sempre i soliti.
Chi oggi, in Occidente, si schiera come fossimo sugli spalti di uno stadio, commette un errore clamoroso. Perché se da una parte ci sono gli interessi economici di Israele, dall’altra ci sono quelli di Hamas e della ricca borghesia islamica. Se Israele avesse voluto eliminare Hamas senza ammazzare e senza mettere a rischio il suo popolo, poteva eliminare l’embargo e lasciare i palestinesi liberi di vivere la propria vita.
Oggi a Gaza è impossibile pescare,  aprire un’azienda, o fare un Erasmus. Gaza è una prigione a cielo aperto e Israele, insieme ad Hamas, sono i suoi carcerieri.

Fonti

https://2009-2017.state.gov/j/ct/rls/crt/2007/103714.htm

Schanzer, J. (2008) Hamas vs. Fatah: The Struggle for Palestine. New York: Palgrave Macmillan

Pham, L. (2014) ‘Terrorism and charity: defining Hamas’, World Policy Institute. Available at: http://www.worldpolicy.org/blog/2014/08/08/terrorism-and-charity -defining-hamas

Beaumont, P. (2017b) ‘Hamas hands control of Gaza crossings to Palestinian Authority’, Guardian. Available at: https://www.theguardian.com/world/2017/nov/01/hamas -hand-over-control-of-crossings-to-palestinian-authority

B Milton-Edwards – Third World Quarterly, 2008

fp

Fabio Palli

Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.

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