Messina Denaro: tra accettazione sociale, connivenze, complici e massoneria

Siamo rimasti di lato per non rimanere soffocati dalla massa di meme e battute da bar, dichiarazioni fatte tanto per esserci, e pubblicazione di articoli con dettagli inutili. Abbiamo schivato anche il racconto dell’assassino di Castelvetrano straziato perchè ignorato dalla figlia

“U siccu”, l’ultimo stragista, il boss superlatitante, è stato catturato. Dopo decenni di clandestinità, con identikit inventati perché del boss si sono perse le tracce dal 1993, e grazie a una rete di connivenze tanto fitta quanto sicura e protettiva, non ci meraviglia il fatto che potesse circolare liberamente per strada senza essere riconosciuto.

Questo però meraviglia i dietrologi, maestri nell’abitudine diffusa e un po’ appiccicaticcia che si sta allargando a macchia d’olio soprattutto sui social e su molti media che di dinamiche mafiose sanno poco. Di certo, una volta che il boss è stato arrestato, diventa tutto semplice. Lo avevo detto, lo sapevo, si sa come vanno queste cose, immaginavo fosse malato, era lampante, tutti collusi, lo Stato sapeva.

Passare dal divano alla conoscenza delle dinamiche mafiose è un attimo. E poco vale il fatto che centinaia di investigatori abbiano impiegato tempo e fatica per far combaciare i pezzi e arrivare al risultato raggiunto, l’arresto del boss, abbattendo la coltre di omertà e collusioni che si crea intorno a criminali mafiosi. Che poi, permetteteci una battuta leggera, molti “investigatori” social non si accorgono, o lo fanno per ultimi, di essere traditi dalla moglie o dal marito con cui vivono gomito a gomito magari da 30 anni.

Le mafie non sono solo un fatto criminale

Le difficoltà che gli investigatori incontrano sono causate, per buona parte, dall’accettazione sociale del metodo mafioso e dei mafiosi sul territorio. Gli affari sporchi, gli appalti truccati, le aziende che servono a riciclare soldi e che inquinano l’economia sana, i favori, le agevolazioni, le viviamo tutti i giorni e ne siamo magari a conoscenza. A volte, in molte realtà, ci rivolgiamo al mafioso per risolvere problemi burocratici. Spesso i mafiosi li eleggiamo, consapevoli del loro ruolo e degli affari che conducono, a volte diamo loro la nostra fiducia solo perché ne avremo un tornaconto.

Come è successo qualche anno fa con un imprenditore calabrese trapiantato a Genova che ha causato una catastrofe economica con un fallimento che ha messo in mezzo alla strada centianaia di persone. Possibile che nessuno sapesse? Da chi è stato protetto per decenni? Perché chi denunciava da moltissimi anni è stato ignorato?

Salvatore Baiardo

Non ultima l’intervista di Giletti fatta a novembre 2022 al pentito Salvatore Baiardo, ex gelatiere, che coprì la latitanza di Giuseppe e Filippo Graviano, due dei quattro fratelli mafiosi che la cronaca ricorda per il brutale omicidio di Don Pino Puglisi e per aver partecipato alle stragi dove sono morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per il favoreggiamento Baiardo scontò poi 4 anni di carcere negli anni ’90.

Ecco, sull’arresto di Messina Denaro, Baiardo, e quindi Giletti, sapeva tutto già a novembre. Nell’intervista parla di un Messina Denaro “molto malato” che si consegna alle autorità. Uno scoop mica da ridere. Un bel po’ di invidia da parte nostra che sulla mafia studiamo da tanti anni.

Perché se è vero che le dichiarazioni di Baiardo si sono puntualmente avverate, cosa sarebbe successo se Messina Denaro non fosse stato preso? Un’ipotesi, anzi una rivelazione, prima di diventare una fandonia, quanto tempo dura? E se Baiardo non avesse tirato a indovinare, ma avesse davvero contezza di quello che stava dicendo, quanto sarebbe distante da un’altra accusa di favoreggiamento?

Mentre la satira impazza sui social con meme e vignette, proviamo a fare un po’ di cronaca, la più puntuale possibile, su cosa sta succedendo in Sicilia, ma anche tutti i giorni in casa nostra, dove mafiosi – pregiudicati e imprenditori – partecipano ad appalti, li vincono, magari a scapito di imprenditori seri, con l’accettazione sociale dei cittadini che li incontrano al bar o a fare la spesa.

A Genova c’era Gangemi

Nel capoluogo  ligure si conferma il predominio del locale di Genova, facente capo a un esponente del sodalizio Gangemi, condannato nel 2017 in via definitiva, nell’ambito dell’inchiesta della DDA di Reggio Calabria denominata “Crimine”. Gangemi era titolare di una “carica” che gli consentiva di svolgere funzioni di coordinamento tra il Crimine reggino e la Camera di Controllo regionale, struttura intermedia di coordinamento strategico delle cellule ‘ndranghetiste operanti in Liguria.

Ulteriore conferma della radicata operatività del contesto ‘ndranghetistico nel capoluogo proviene anche dagli esiti, nell’ottobre 2018, dell’appello-bis di “Maglio 3”, che ha imposto altre 9 condanne per associazione di tipo mafioso (e un’assoluzione).

Eppure Gangemi appariva come un uomo mite, gestiva un negozio di frutta e verdura, aveva persino prezzi buoni ed era gentile. Lo chiamavano “Mimmo” il verduraio.

La “sesta provincia calabrese”

Nota come la “sesta provincia calabrese” perché definita così dalla Presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, in considerazione della capillare presenza di esponenti di spicco della ‘ndrangheta, a Imperia operano qualificate proiezioni delle cosche reggine Santaiti-Gioffrè, Gallico, Piromalli, Mazzaferro, Alvaro e Pelle, che fanno capo al locale di Ventimiglia, controllato a sua volta dalle famiglie Marcianò di Delianuova e Palamara, quest’ultima legata da vincoli parentali agli Alvaro di Sinopoli.

 In proposito appare emblematica la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Genova,  il 13 dicembre 2018 a conclusione del processo d’appello-bis “La Svolta”, che ha sostanzialmente confermato le condanne comminate dal Tribunale di Imperia ai partecipi dell’articolazione territoriale insediata nell’estremo ponente ligure – il locale di Ventimiglia appunto – funzionale al collegamento con l’omologa proiezione ultranazionale, attiva nella vicina riviera francese, la cosiddetta Camera di passaggio o di transito, di cui dicevamo.

Taggia e Sanremo

Tra Taggia e Sanremo opererebbero alcuni soggetti collegati alle cosche di Palmi e Gioia Tauro. Proprio a San Remo,  risulta essersi insediato da tempo un esponente di rilievo della cosca Gallico di Palmi (sorvegliato speciale per mafia con obbligo di soggiorno a Sanremo), da ultimo coinvolto in attività di narcotraffico internazionale con il gruppo Magnoli-Giovinazzo di Rosarno (RC), ramificazione della potente cosca Piromalli di Gioia Tauro (RC), trasferitosi a Vallauris (Francia), da dove gestiva una vera e propria base operativa del traffico di cocaina che riforniva anche esponenti di Ventimiglia.

La concentrazione in questo comprensorio di famiglie calabresi si è manifestata non solo attraverso la costituzione di aggregati criminali, ma più di recente anche attraverso la riproposizione in loco di manifestazioni e riti tipici delle zone d’origine, tra cui, nel solco della più nota festa della “Madonna di Polsi” celebrata ogni anno ai primi di settembre nell’omonima frazione di San Luca (RC), occasione non solo di festeggiamenti religiosi ma di veri e propri summit di ‘ndrangheta, la festa della “Madonna della Montagna”.

Da Ponente a Levante

Anche a Savona si registra la presenza di esponenti delle cosche reggine Palamara-Morabito-Bruzzaniti, Raso-Gullace-Albanese e Piromalli.

A Spezia si segnala la presenza di cosche della fascia jonica reggina, facenti capo al locale di Sarzana, dove è egemone il gruppo Romeo-Siviglia, originario di Roghudi (RC), connesso al cartello Pangallo-Maesano-Favasuli.
A Bolano, sempre in provincia di Spezia, insistono, invece, gruppi contigui ai Grande Aracri di Cutro (KR).

Il covo di Messina Denaro

Il covo di Messina Denaro, l ‘appartamento di via Toselli, a Trapani, è risultato di priorità di un tale Errico Risalvato che nel 2019 fu oggetto di una perquisizione assieme ad altri presunti fiancheggiatori del boss. Il fratello, Giovanni Risalvato, imprenditore del calcestruzzo, è considerato molto vicino al boss Castelvetranese, e ha da poco finito di scontare una condanna a 14 anni ed è libero.

La chiave per aprire la stanza l’ha data agli inquirenti lo stesso proprietario spiegando agli investigatori del Ros e al procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Guido, che all’interno c’erano solo oggetti di famiglia.

Il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia, in un’intervista al Fatto Quotidiano ha dichiarato: “Quando sono arrivato, il primo obiettivo della mia Procura non poteva che essere la cattura di Matteo Messina Denaro, quindi c’è stata un’intensificazione di attività e di lavoro da parte di tutti che ci ha consentito di centrare l’obiettivo. Per noi è una cosa che rimane di estrema importanza per due punti di vista. Perché chiude un conto con il periodo stragista, ma anche perché auspichiamo di potere capire ora quali successivi sviluppi può avere l’indagine e la stessa Cosa Nostra.

Poi c’è il grosso del lavoro, cioè ricostruire i 29 anni precedenti. È evidente che 29 anni di latitanza più uno, non si fanno solo in quel territorio. Noi lo abbiamo trovato lì perché aveva bisogno di stare lì,  ma non è affatto detto che si sia mosso soltanto in quel territorio. Ed è chiaro che ha goduto di appoggi che non sono solo quelli della cosiddetta mafia militare”.

Trapani è da sempre un punto di incontro e confronto tra mafia e borghesia mafiosa, e con i mafiosi interni alla massoneria, soprattutto in particolari settori come quello della sanità oltre all’imprenditoria in senso più allargato. E vale la pena di ricordare che, per numero di logge, questa città è seconda solo a Messina.

In un articolo di Chiara Pracchi per fivedabliu, il Pm Lombardo su mafia e massoneria lascia poco spazio ai dubbi:

“Il legame fra mafie, servizi segreti e massoneria  è stato confermato anche dal siciliano Gioacchino Pennino: “Mio zio – ha dichiarato – si recava in Calabria dove, mi disse, aveva messo insieme massoni, ‘ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile”.
“La ‘ndrangheta non esiste più – spiegava nel 2013 Panataleone Mancuso, alias zio Luni – La ‘ndrangheta fa parte della massoneria, … hanno le stesse regole … ora è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta”.

Il progetto Santa, ovvero la creazione di un livello coperto, compartimentato, sconosciuto anche ai picciotti dell’organizzazione, in grado di interfacciarsi con le leve del potere e compenetrarle, è del 1969. Noi la scopriamo solo negli anni ’90-2000 con l’Operazione Olimpia (I-V).

L’esistenza della struttura riservata è stata ampiamente riconosciuta dalle sentenze del processo Meta, in cui si spiega che è “composta da soggetti significativamente definiti dagli stessi indagati come ‘gli invisibili …la cui adesione alla ‘Ndrangheta, anche per ragioni di maggiore tenuta della stessa organizzazione, è e deve rimanere ignota agli stessi altri affiliati”.

‘Ndrangheta, Cosa nostra, mafie e mafiosi, una razza una faccia, citando un personaggio di un famoso film di Gabriele Salvatores. E hanno la stessa faccia e la stessa razza i conniventi, i complici, i “tengo famiglia”, i colletti bianchi, gli amministratori collusi e quelli corrotti,  e molti di quelli che sanno e non parlano, i molti che con il silenzio e l’inchino permettono quotidianamente che i mafiosi facciano affari e rimangano latitanti anni. I tantissimi del “era così gentile, salutava sempre”.

Perché Messina Denaro non ha il cancro, è il cancro.

fp

Fabio Palli

Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.