Depositi chimici a Sampierdarena, al di là del contenuto. Una riflessione di Enrico Testino

Non sono esperto di queste questioni dal punto di vista tecnico e, su questo, tendenzialmente, guardo con interesse e fiducia agli esperti e alla cittadinanza attiva che, in tutte queste faccende, sono in grado di esprimere approfondimenti interessanti e centrali.

I tanti “se…”

C’è una questione, però, che è chiara, appunto al di là dei contenuti, ed è quella che riguarda la partecipazione rispetto a questa decisione. Infatti se l’ENAC, in una intervista a Il Secolo XIX prefigura la possibilità di ricorso al TAR contro questa decisione e sottolinea alcuni aspetti che possono essere di incompatibilità con l’esistenza stessa dell’aeroporto…se alcuni grandi privati e reti di privati avanzano nuove proposte per l’utilizzo dello spazio destinato, nelle dichiarazioni, di Ponte Somalia, argomentando migliori soluzioni e lamentando uno scarso coinvolgimento…se l’Istituzione di prossimità, il Municipio, scende il campo in modo duro, deciso e contrapposto contro la decisione e il Comune…se diversi comitati cittadini capaci di raggruppare intorno a loro, su questa questione, tantissimi residenti del municipio afferente, e non solo, si schierano disperatamente contro lo spostamento…se nasce una lotta tra componenti di cittadini di diversi quartieri…se succede tutto questo è evidente che la gestione “politica” della cosa non è stata buona, così come è evidente che l’assenza totale di partecipazione lascia lo spazio a lotte senza regia.

La partecipazione, nella sua accezione più alta, è poter decidere, come se in questo caso si fosse fatto, per porre un esempio, un referendum. Ovviamente in un referendum, se si valutasse che fosse uno strumento opportuno per questa decisione, bisognerebbe… decidere cosa questo decide, chi sia chiamato a votare (se tutta la città o il quartiere, ad esempio), gestirlo con diffusione di informazioni e confronto tra le parti e con metodi ben strutturati, ecc…

Ma la partecipazione, anche se ristretta e non orizzontale, può esprimersi in diversi modi. Può passare, ad esempio, tra la concertazione con tutti gli enti preposti come Enac e terminalisti nel loro complesso. Può passare attraverso una forte discussione pubblica, mediatica. Ancora, può favorire il coinvolgimento di tutta la città con assemblee, percorsi, confronti, approfondimenti, tavoli tematici, audizioni. O può essere un mix di queste cose.

Nel dibattito pubblico non era previsto Ponte Somalia

Qui c’è stato un dibattito “pubblico” che, ho letto in vari interventi, non aveva neanche nell’elenco dei siti ipotizzati, preso in forte considerazione Ponte Somalia. Probabilmente è stato un dibattito che non ha coinvolto in modo importante tutti. C’è stata una comunicazione di decisioni in maniera non, diciamo, calibrata, con una assemblea, ad esempio, in diretta sulla più grande emittente televisiva locale, che non lasciava spazio a un vero confronto, e non c’è stato nessun percorso di reale informazione, partecipazione, discussione.

Siamo distanti dalla cultura della partecipazione

Il risultato, come al solito, è che la partecipazione se non è prevista prima e promossa opportunamente da attori Istituzionali, poi, dopo, più o meno, qualcuno la fa. Cioè gli attori coinvolti (gli stakeholder per dirla in “english mood”) che cercano di pesare, giustamente, nella decisione. E allora si inizia con la fatica, improba, di cittadini riuniti in vari comitati, che a spese del loro tempo, lavoro, vita mettono su percorsi di pressione, studio, manifestazioni, raccolta firme, elaborazione di contro progetti. Esperti di associazioni o enti tematici che redigono e presentano proposte. In questo caso anche privati con interessi legittimi entrano in campo. E addirittura, ed è veramente un eccesso, si aprono vertenze con altre Istituzioni non coinvolte.

E’ quello a cui stiamo assistendo. Una fatica ed una, valutiamo, confusione dove la decisione presa uscirà da questo, disordinato, percorso chissà in quale modo e con quale attenta valutazione. Siamo ancora distanti, a Genova almeno, da una cultura della partecipazione. Direi, anzi, che la democrazia rappresentativa è interpretata, sempre di più, nella sua accezione di gestire il mandato amministrativo con il massimo decisionismo possibile, legittimo, senza attivare, invece, il coinvolgimento di tutti i protagonisti cittadini.

Questa è una interpretazione legittima dell’attuale sistema di “governance” amministrativa, ma a mio avviso genera fratture e, alla fine, progetti senza l’apporto di importanti risorse, competenze, intelligenze, portatori di interesse, cittadini.

I progetti dei percorsi partecipativi sono migliori

La partecipazione, faticosa come è, pare sempre più “al palo”, ma quando c’è è una benedizione. Chi più spende (in termini di tempo ed energie) meno spende, diceva il detto popolare. E i progetti usciti da percorsi partecipativi sono più faticosi, rischiosi per chi li propone, ma alla fine migliori e più forti. Dall’altro lato del “modello partecipativo” di governo c’è quello che potremmo definire il “modello cinese” che, anche qui al di là dei contenuti, mira a dividere la popolazione in due parti: chi decide di intraprendere la carriera politica ed entrare nell’alveo dei decisori, sposando un sistema di vita quasi militare o vocazionale, e chi decide di non occuparsene, ma allora non ha diritto di partecipare perché, semplicemente, non è tra i decisori. Chi non entra nella “carriera” politica vive la propria vita al meglio, giudica, borbotta, gode di eventuali scelte politiche felici, patisce quelle infelici ma sa che non è nei suoi compiti e, soprattutto, possibilità, decidere alcunché. Ed è un modello che affascina, perché rende più veloci le decisioni, ed in tempi di crisi e confusione la sensazione è che non ci sia tempo di discutere.

I cittadini, il porto, il PIL e le lobby

Sposare un modello o un altro è anche una questione di scelte di orizzonti umani. E nella nostra, grandissima ma anche limitata, vicenda dello spostamento dei depositi chimici stiamo sperimentando tutte queste tensioni e tendenze culturali. Si spera che anche questa vicenda possa spingere la città, tutta, nel vedere nel metodo del confronto, e non in quello delle lobby, dal basso o dall’alto, il modo migliore per progettare e gestire la città.

E non solo la città, che è in crisi, ma anche il Porto, che con tutte le sue problematiche, ci dicono, produce tra l’1% e il 2% del PIL nazionale, e va benissimo. E magari, inerzialmente, senza cattiveria e senza ragionarci, e forse pensando che il proprio bene sia automaticamente il bene della città, “il Porto” pensa che il confronto con la città che si trova attaccata, sia un rallentamento.

E sul piatto, il Porto, in queste trattative, ci mette anche i circa 12.000 occupati al proprio interno e i, secondo certi studi, 60.000, nell’area genovese che di Porto vivono. Transfrontalieri fisici, ma soprattutto dell’anima e dell’identità, che si trovano a guardare le due parti da entrambi i punti di vista e costituiscono un corpo sociale che può essere fonte di soluzioni, conoscendo le esigenze sia della città che del Porto, o di blocchi, diventando ostaggi. E che, forse più di tutti, sanno quanto la salute e la sicurezza sia un elemento che deve diventare sempre di più fondante di queste due città. Un elemento che o diventa fondante o, se non pesato nella giusta misura, affondante la vivibilità di tutti.

 

Enrico Testino

Fondatore del gruppo Progettare la Città

Vice Presidente Consorzio Pianacci

Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta