Cento anni di Leonardo Sciascia

Spesso definito intellettuale “mafiologo”, mal sopportò questa definizione che poco prendeva atto della sua profonda conoscenza della sicilianità e della complessa ritualità antica di secoli che la contraddistingue. Una scritta enigmatica è sulla sua tomba, “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”, sulla quale si sono scervellati tutti i suoi ammiratori e lettori. Una letteratura, la sua, che fu venata dall’inizio alla fine da questo modo sornione di enunciazioni a volte enigmatiche.

Recalmuto “villaggio morto”

Nato a Racalmuto – il cui toponimo, in arabo, significa “villaggio morto” -, nei pressi di Agrigento nel gennaio 1921, aveva il padre che lavorava nella locale miniera di zolfo. Frequentò in quella cittadina le scuole in compagnia dei figli dei minatori e contadini. Più tardi riuscì a prendere la licenza magistrale e divenire maestro elementare. Nel 1946, come ebbe occasione di raccontare, rimase impressionato dal suo primo contatto con la Sicilia giudiziaria. Erano allora vigenti leggi restrittive sul razionamento. Un contadino aveva trattenuto tre quintali di grano ed era stato condannato a due anni di carcere; un arciprete che nascondeva quindici quintali era stato assolto giustificandosi perché il quantitativo era destinato ai bisognosi. L’episodio lo toccò molto.

Il Capitano Bellodi

Da dire che la sua fortuna di narratore nacque non solo da un forte esordio di letterati meridionali come Danilo Dolci, Tommaso Scotellaro, Gaetano Salvemini e altri, dai quali si comprese che della problematica del sud Italia si poteva anzi si doveva parlare. Per capire analizzare, magari proprio a nativi dei luoghi. Non è un caso che uno dei più grandi amici di Sciascia fosse un ufficiale dei Carabinieri, Renato Candida che nell’agrigentino ottenne risultati mai visti in quella terra dalle sue indagini. Un amico presto trasferito, forse proprio a causa di un’opera di Sciascia che raccontò seppur anonimamente i fatti. Poi l’incontro col capitano Bellodi, quel sorprendente personaggio de “Il giorno della civetta”. Ad un tratto anche fuori dell’Italia ci si accorse di lui (Premio Libera Stampa di Lugano) e, anche nel Paese, si comprese che il meridione doveva e poteva essere narrato, analizzato, compreso.

Nella sua vita fu perseguitato dalla malattia del padre, una forma di demenza alimentata dall’arteriosclerosi, della quale soffrì moltissimo. Uno stato simile a Luigi Pirandello, il quale patì costantemente la malattia mentale della moglie.

Ugo Pirro, acuto sceneggiatore e cultore di Sciascia, disse che lo scrittore nel cinema fu un rappresentante del mistero. Parlava della trascrizione cinematografica dei libri A ciascuno il suo da parte del regista Elio Petri e Todo modo. In tempi particolari come quelli in cui uscirono queste storie si parlò di film e storie poliziesche, ma non erano solo quello, bensì la descrizione del mistero nel mistero, il vero mistero, quello della Sicilia. Strettissimo il suo legame con il cinema: fin da piccolo ebbe il vezzo di prendere appunti, notazioni su film che vedeva nei cinema del paese. “Riempivo quaderni di poesie, di favole, di critiche di film, di tutti i film che vedevo”.

In una intervista alla televisione svizzera a chi gli chiese chi lo avesse influenzato maggiormente come scrittore fece il nome di Manzoni e Stendhal. Come Deputato fece parte del Partito Radicale, ma non prese mai la tessera. Fece parte della Commissione Moro e si dimise da parlamentare europeo quando si rese conto di non essere più in grado di seguire le sedute per altri impegni. Fu sempre incoraggiato ad iscriversi al Partito Comunista Italiano ma per sue convinzioni intime mai volle aderire agli inviti di chi lo incoraggiava.

“Il Giorno della Civetta”

Poi la notorietà, con il Giorno della Civetta.
“Indubbiamente la mafia è un problema nostro. Io ne ho fatto un’esemplificazione narrativa: fino a quel momento sulla mafia esistevano degli studi, studi molto interessanti, classici addirittura: esisteva una commedia di un autore siciliano che era un’apologia della mafia e nessuno che avesse messo l’accento su questo problema in un’opera narrativa di largo consumo. Io l‘ho fatto, dichiarò nel 1965. Poi, nel 1982, i media identificarono il Generale Dalla Chiesa con l’interprete principale di quel libro. Già nel 1957 aveva descritto la mafia in questo modo, cosa non consueta per l’epoca: “La mafia è un’associazione per delinquere con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza.”

Sul Generale Dalla Chiesa

Poi il rapimento da parte delle Brigate Rosse di Aldo Moro e la sua partecipazione alla commissione d’inchiesta. Da molti in quel periodo gli venne contestato il suo silenzio. Ma, quando il Generale Dalla Chiesa morì, espresse con frasi non comode il suo pensiero “Io sono convinto che di poteri il generale Dalla Chiesa ne ebbe già troppi contro la lotta al terrorismo: e ne è discesa quella legge sui pentiti che nessuno, spero, verrà a dirmi abbia a che fare con l’idea di giustizia e con lo spirito e lettera della Costituzione.”

Su Tommaso Buscetta

Probabilmente il 1987 fu l’anno in cui Sciascia si rivelò definitivamente acuto analista del fenomeno mafioso, quando da una ricerca di Christofer Duggan sulla mafia durante il fascismo, puntò il dito contro l’antimafia che può, mancando lo spirito critico nei suoi confronti, divenire uno strumento di potere dalle conseguenze imprevedibili in un sistema democratico. Ma già nel 1986 delle osservazioni su Buscetta furono sibilline: “Si dice dissociato e non pentito. Non è pentito di aver fatto parte della mafia, ne coltiva anzi l’ideologia, la nobiltà… “

La mafia ha radici profonde

Come ben si evince, sotto l’espressione enigmatica di Sciascia in molte immagini e nella lentezza soppesata dei suoi ragionamenti si nasconde un monito ancora attuale a disertare i facili entusiasmi contro una criminalità che affonda le sue radici in sentimenti profondi della nostra civiltà che ci esorta a rimanere vigili, attenti nei giudizi e nelle analisi del suo modus operandi.

Mauro Salucci

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Mauro Salucci è nato a Genova. Laureato in Filosofia, sposato e padre di due figli. Apprezzato  cultore di storia, collabora con diverse riviste e periodici. Inoltre è anche apprezzato conferenziere. Ha partecipato a diverse trasmissioni televisive di carattere storico. Annovera la pubblicazione di  “Taccuino su Genova” (2016) e“Madre di Dio”(2017) . “Forti pulsioni” (2018) dedicato a Niccolò Paganini è del 2018 e l’ultima fatica riguarda i Sestieri di Genova.

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