Puntaspilli

In tutta franchezza: non mi dispiace che questa settimana ferragostana sia alfin terminata. C’era da onorare la ricorrenza di una tragedia, le 43 vittime del destino, o dell’incuria, o del rinvio, o del calcolo e dei profitti. Dell’italica convinzione che ce la faremo… e se non ce la faremo peggio per gli altri. Ma non per noi. Anche perché la “teoria del dopo” è rischiosa….. “Dopo ti chiamo, dopo lo faccio, dopo lo dico, dopo io cambio, ci penso dopo…..dopo il giorno è notte…dopo la vita finisce”. E mai la richiesta di silenzio era stata più condivisa e pressante nel mezzo del concionare su una crisi di governo balneare, promessa, con tanto di elezioni immanenti e imminenti alle porte, che si è rivelata, gaffe, boutade, macchietta. E perciò il silenzio del capo dello Stato e quello dei vicepremier e del premier, fianco a fianco, che si guardavano in cagnesco. Silenzio sulla crisi balneare, sulle elezioni che verranno, o forse no,  sulle responsabilità che saranno un giorno svelate e certificate, o forse no. Mentre si consumava il ricordo, almeno il silenzio sulla crisi di governo e sull’Italia che verra’. Per ricominciare il giorno dopo Ferragosto, da Feriae Augusti, collocato dopo il concordato alla metà del mese, nel giorno dell’Assunta. Gia, quella madonna rientrata prepotentemente dalla finestra della propaganda elettorale, fra rosari, santuari, santi protettori e divise. E il giorno dopo ancora, dedicato a San Rocco pluriprotettore. Dai cani alle articolazioni delle ginocchia. Passando per appestati, contagiati, emarginati, ammalati, viandanti e pellegrini. Sino a operatori sanitari, farmacisti, assicurativi e volontari. Un santo per tutti i giorni, le occasioni, le categorie. A cui raccomandarsi, magari, anche per risolvere questa crisi balneare salto nel buio. Lanciata dalla consolle del Papeete beach con nani e ballerine. E l’inno suonato a marcetta. Con fieri propositi, ipotetiche o impossibili alleanze, ribaltoni, oppure rimpasti da burletta. Nuovi premier, sempre gli stessi, oppure no, epigoni della furbata del mandato zero.

Con Matteo che polemizza con Matteo “tranquillo omonimo, io non vado al governo, ma tu quando ti dimetti?”. Calenda che rimanda a elezioni imminenti e nuove alleanze alle calende. Ho seguito, ho letto. Tutto è il contrario di tutto. Cambiamenti vorticosi di simboli, colori. Italia, povero e vituperata, in crescita. Anzi no, cambiamo – si cambia, tutto si trasforma, magari non cresce più, ma cambia. Cambiamo con Toti. Eppoi le diverse nuance: tutto arancione, anzi no, azzurro berlusconiano, blu Fratelli d’Italia. E con l’aggiunta del tricolore. Del tricolore, vessillo di questa povera nostra Italia. Tutto cambia, tutto si trasforma. Vorticosamente. Tout casse, tout passe, tout lasse, il n’est rien, et tous se remplace. E nel vorticoso vorticare di colori, l’ultimo governo possibile o impossibile si è trasformato da verdeoro a giallo verde. Così è se vi pare, perché,  gattopardescamente, tutto cambia perché nulla alfin cambi. Con nomi nuovi o inossidabili per un governo di scopo, Pierferdinanfo Casini, nomen omen, o Ursula l’antisivranista che non è la Andress dello 007 con licenza di uccidere, ma la Von der Leyen, neo Presidente della Commissione Europea, donna, tedesca, Cristiano sociale in salsa antisovranista. E insomma, lo stallo finita la settimana di Ferragosto dovrebbe essere terminato, o forse no.

In tutto questo bailamme, descritto per sommi capi, ho preferito rivolgere il pensiero al puntaspilli che ha fatto irruzione nella comunicazione politica, portando alla ribalta un avvocato genovese, ex assessore alla legalità della giunta del principino, marchesino Marco Doria, dispersa per la politica da due anni a questa parte, tornata prepotentemente in auge. Avvocato e cittadino qualunque che ha avuto l’irriverenza di postare sul suo profilo un puntaspilli con faccia del nostro vicepremier e ministro dell’interno, al momento assorto nell’amletico dubbio di ritirare se stesso e i suoi ministri della Lega oppure no, di giungere a più miti consigli e rinverdire il governo verdeoro oltrepassando il guado della crisi balneare lanciata forse dopo troppi moyto, ricolorando il tutto di gialloro. Formazione immaginaria in cui, comunque la collocazione dei colori la dice lunga sulla priorita’ delle formazioni politiche.

L’avvocato Elena Fiorini, comunque ha accompagnato la foto con poche e sentite parole, condendolo con satira e ironia, come se si trattasse di una portata del desco si ferragosto dura da digerire. Dice la Fiorini “

“Ho appena fatto un acquisto F-O-N-D-A-M-E-N-T-A-L-E! Li vendono a Lisbona eh, e si sono raccomandati di piantarci tanti spillini… E niente, a me mancava giusto un puntaspilli, manco a farlo apposta”. Rimettendo in moto “la Bestia” della propaganda salvinista affaccendata nel prendere di mira Luciana Litizzetto e Michela Murgia schierate nella campagna per riportare a terra gli ospiti della Open Arms.

Il leader della Lega ha subito Replicato su facebook “L’Ex assessore, sinistra e “democratica”, del Comune di Genova dichiara al mondo che infilerà spilloni in un bambolotto con la mia faccia. Ormai sono arrivati ai riti voodoo!”.

A stretto giro è arrivata anche la contro-replica della Fiorini: “Sono stupita che un ministro dell’Intero non abbia di meglio da fare che richiamare l’attenzione sul post, tra l’altro non pubblico, di una privata cittadina”.

E a noi piace proporre un altro puntaspilli con il volto dell’ex assessore in questione. Tanto per essere bipartisan o coadiuvare i troll leghisti in vena di riti voodo, nel caso intendano rendere alla malcapitata pan per focaccia.

Gia’ tutto per un puntaspilli. Un tempo, lontano e ormai andato, il puntaspilli era il corsivo degli editorialisti in cui menavano non spilli ma fendenti alla classe politica in auge. Ne è rimasto il ricordo consunto, ormai in epoca di comunicazione social, in un giornale di Lecco che ha avviato una rubrica con quel nome: “Fatti e misfatti, reali e surreali, sussurri e grida, tra il serio  e il faceto,  dei Palazzi in cui si gestisce la «res pubblica» per cercare di capire che cosa accade dietro le quinte, a un passo dalle elezioni. E ‘ nata questa settimana sul Giornale di Lecco, la rubrica Il Puntaspilli, la politica nostrana (vera o presunta) in punta di spillo. Questa settimana le  “punture di spillo” hanno riguardato in particolare Guido Agostoni, Flavio Nogara,  Alberto Spreafico e  Giuseppe Procopio tra scatoloni e viaggi della (non) speranza…”.

Già, fatti e misfatti della nostra politica in chiave satirica, come ai tempi di Mario Melloni alias “Fortebraccio” che scriveva sull’Unità degli anni Settanta, Indro Montanelli che firmava i “Controcorrente” sul suo Giornale, e tre autori tuttora in attività, Michele Serra (“Che tempo fa” sull’Unità e “L’amaca” su Repubblica), Massimo Gramellini (“Buongiorno” sulla Stampa), Sebastiano Messina (“Bonsai” su Repubblica) e Riccardo Barenghi (“Jena” sulla Stampa).

Dal 1967 al 1982 uscirono sulla prima pagina de “l’Unità” i corsivi firmati Fortebraccio. La rubrica “Oggi” diventò un appuntamento imprescindibile non solo per i lettori de l’Unità, poiché in breve tempo i corsivi di Fortebraccio assursero a ruolo di vero e proprio fondo politico,  sempre puntuali, anche feroci mai volgari. Fu amato dai compagni, temuto ma rispettato dagli avversari.

Suoi obiettivi erano un po’ tutti i politici avversari (prima del mondo socialcomunista quando era democristiano e dirigeva Il Popolo, poi del mondo democristiano – e non solo quello – quando era diventato comunista e scriveva su l’Unità); col tempo prese di mira, firmandosi come Fortebraccio, anche i direttori dei grandi quotidiani (da Missiroli a Spadolini), i protagonisti della scena pubblica legati al potere e ai centri d’affari che ruotano attorno al potere, gli industriali (affibbiò a Gianni Agnelli il soprannome di “avvocato Basetta”) e i ricchi, in definitiva tutti coloro che stavano dall’altra parte e che lui definiva lor signori; aggiungendo che nella maggior parte dei casi questi lor signori erano “magri, disinfettati e pallidi come una siringa”. Da democristiano attaccò il partito di Togliatti, se la prese anche con Pietro Nenni, chiamò l’Unione Sovietica “nuovo Islam mongolico”. Da ex-democristiano e conoscitore dell’ambiente di Piazza del Gesù, risparmiò le frecciate più aspre verso quelli che più stimava tra gli ex-amici (Aldo Moro e Andreotti al quale riconosceva una robusta intelligenza, sferzando impietosamente gli altri: Fanfani, Donat Cattin, Forlani, Piccoli, Rumor, Colombo. Ma anche Craxi, Malagodi, La Malfa e quasi tutti i socialdemocratici.[13] Di sé diceva: “Preferisco essere un comunista settario piuttosto che un comunista liberale o, peggio ancora, socialdemocratico”.

Dotato di una chiarezza espositiva quasi didascalica, Fortebraccio aveva ben presente che scriveva sul giornale dei lavoratori, nel paese che stava vivendo il boom economico del secondo dopoguerra, ma che ancora contava masse di cittadini semianalfabeti. La scrittura elegante, lo stile sorvegliato e un lessico più che mai appropriato, uniti a un’ironia tagliente, talvolta anche “ferina e spietata”, lo fanno annoverare tra i padri nobili della satira politica italiana. Ma non tutti saranno di questo avviso.

Melloni sostenne una «lunga ma elegante polemica» con Indro Montanelli, direttore de Il Giornale, ed elzevirista con Controcorrente. In un suo corsivo, dettò per sé un singolare epitaffio in cui citava il suo rivale: “Qui giace Mario Melloni (alias Fortebraccio) che trascorse la vita ad amare Indro Montanelli e non smise mai di vergognarsene”.

Montanelli rispose con un elzeviro nella sua rubrica Controcorrente: «Purtroppo, devo avvertire Fortebraccio che anch’io ho preso le mie precauzioni iscrivendo fra le mie ultime volontà quella di essere sepolto accanto a lui. E come epitaffio mi contento di questo: Vedi . lapide . accanto».

I due erano divisi dall’appartenenza ad aree politiche contrapposte, ma uniti da un reciproco sentimento di stima e rispetto. Mi piace ricordarlo, Fortebraccio, visto che iniziò la sua carriera giornalistica a “Il Corriere Mercantile” tra il 1924 e il 1925, cessando proprio in quell’anno per non essere costretto a prendere la tessera fascista. Lavorò come impiegato di concetto nella direzione di una compagnia petrolifera americana sino alla sua chiusura, nel 1939, vivendo sempre a Genova, salvo un anno a Napoli e uno a Roma. Si trasferì nel 1941 a Milano, impiegandosi nella segreteria generale dell’Innocenti di Lambrate e due anni più tardi nell’industria siderurgica Vanzetti.

Durante la Seconda guerra mondiale prese parte alla Resistenza tra i partigiani “bianchi”, raccogliendo fondi da industriali e banchieri che poi consegnava di volta in volta a Gabriele Invernizzi, un comunista che dopo la liberazione sarà segretario della Camera del lavoro di Milano e deputato del PCI. Approdo’ alla Dc e entro come giornalista. “il Popolo“ di cui divenne prima responsabile dell’edizione milanese e poi per due anni, dal 1949 al 1951 direttore. Fu eletto e rieletto deputato nel collegio Vomo-Sondrio- Varese. Fu espulso tre anni più tardi  in seguito al voto contrario alla ratifica dell’adesione dell’Italia alla UEO (Unione Europea Occidentale), Melloni espresse pubblicamente il suo dissenso in Aula e poi votò perché quell’adesione avrebbe consentito il riarmo della Germania. Cominciò a frequentare in particolare Franco Rodano, l’intellettuale cattolico antifascista e militante comunista, considerato l’eminenza grigia di Togliatti sui temi riguardanti il mondo cattolico. E con i finanziamenti del PCI e i consigli di Rodano, il 9 aprile 1955 Melloni fece uscire sotto la sua direzione Il Dibattito politico, prima quindicinale e poi settimanale, con l’obiettivo di avviare un dialogo tra cattolici e comunisti. Dopo la sua adesione al Partito Comunista Italiano diresse in seguito Il Paese e Paese Sera dal 1956 al 1961, quindi Stasera (novembre 1961-ottobre 1962) e fu eletto di nuovo deputato, nella IV Legislatura (16 maggio 1963 – 4 giugno 1968) nel collegio di Milano.

Già, il diritto di satira, che nell’epoca dei social e delle fake news tanto spaventa i nostri potenti in politica e non solo,  in un vicepremier che manda le forze dell’ordine a prelevare e confiscare gli striscioni dissonanti durante i suoi comizi. Con un Vicepremier che ha lanciato la crisi, se l’è rimangiata e ora pur pensando a come uscirne onorevolmente o forse, no, si focalizza su puntaspilli ed eventuali riti vodoo.  Con torme di troll scatenati a seminare odio nei confronti di chicchessia.

Solo due anni fa annotavo divertito osservando l’immagine di una bambola gonfiabile a cui per gioco due colleghi Marco Preve e Ferruccio Sansa avevano fatto apporre il volto di Luca Borzani allora deus ex machina della fondazione di palazzo Ducale. Si era nel pieno della campagna elettorale per le amministrative genovesi. E il Pd genovese, allora più o meno renziano, stentava a mettersi d’accordo sul nome del candidato sindaco e persino sulla necessità delle primarie. C’era in campo uno scalpitante Simone Regazzoni, il popfilosofo, a cui l’establishement opponeva un restio Borzani.
I due scrissero questo articolo surreale e satirico omaggiato, appunto da una immagine di Borzani/bambola gonfiabile pubblicato su “LiguriTutti.it”:
“Una start up di ingegneria ha deciso di raccogliere l’appello proveniente dalla Protezione Civile che ha confessato di non essere in grado di aiutare Simone Regazzoni nella sua incessante richiesta di un colloquio/sfida/confronto/dibattito/relazione/breveincontro/liaison/leggerosfiorarsi/apostroforosa con Alessandro Terrile, Luca Borzani, Terminator o Pluto. Alcuni operatori del disagio e diversi giornalisti emotivamente provati dal numero di comunicati stampa del pump filosofo si sono consultati con i giovani innovatori tecnologici e hanno trovato la soluzione.
Una bambola gonfiabile con il volto di Luca Borzani (Terminator è troppo brutto, Pluto ha il copyright e Terrile non se lo ricordava nessuno).
Si spera così che Regazzoni potrà soddisfare nel buio della sua stanzetta le sue più oscure perversioni: leggere al bambolotto Borzani l’opera omnia di Derrida; fargli tutti i nomi e cognomi dei genovesi che non hanno gradito il videomapping sul Ducale; fare i nomi e i cognomi di tutti i tesserati del Pd che sostengono il giovane Simone (non è una pratica che porti via molto tempo); umiliare Borzani  elencandogli tutti i dinosauri del Pd e tutti gli antichi luoghi del potere genovese (ma evitando con cura di nominare la Fondazione Carige); simulare, nel suo finto seggio della Barbie costruito in un angolo della stanzetta, la lettura delle schede delle primarie in cui Borzani raccoglie un quinto dei voti di Regazzoni (cioè 2); infine un rapporto dialettico a tre con un cartonato di Renzi. La bambola è dotata di uno spillone per l’acme della soddisfazione politica: il flop dell’avversario”. 

Già lo spillone, il puntaspilli o la bambola gonfiabile, e, allora, soltanto due anni fa, nessuno se ne ebbe a male. La politica di oggi è un mix tra comunicazione e narrazione, giocata fra ironia e satira.

Perciò, sul tema ho scelto una foto di copertina che tutto vuole racchiudere. Il punta spilli orientato con le terga all’aria è un coniglio che potremmo essere tutti noi, in attesa dei nostri soliti carnefici e politici da riti voodo. È pur sempre satira, perciò, magari amaramente sorridiamo. Al momento poco altro ci resta da fare

Paolo De Totero

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.