Percosse, umiliate, massacrate, uccise.
Sono già più di 70 le donne vittime di violenza in questo 2016. Prede, nella maggioranza dei casi, di brutalità consumate all’interno dell’ambito familiare da mariti, fidanzati, compagni, ex…
Tutti i vaghi timori sulle difficoltà di costruire sé stessi, in base alle proprie aspirazioni, in una società globalizzata dove è sempre più difficile ricercare la propria identità, sono infine esplosi in un tema preciso, in una definizione, in una parola nuova: femminicidio.
Una parola che ha investito il nostro universo e, come un lungo ululato pieno di cordoglio, risuona contro il cielo mettendo i brividi.
Femminicidio. Perché?
Le ricerche statistiche ci dicono che la ragione andrebbe ricercata nelle modificazioni dei ruoli giocati da uomini e donne.
“Il 90% delle donne vittime di omicidio volontario in Italia dal 2010 al 2014 sono state bersaglio di un uomo e si conferma la centralità del conflitto di genere quale elemento irrinunciabile per la comprensione della violenza stessa”.[1]
Perché la ricerca della propria identità da parte delle donne raggiunge in questi anni una tensione così drammatica? Perché può essere così rischioso impedire a un uomo di piegarci ai suoi fini? Deve restare, questo, un tema eterno nella storia delle donne?
La crisi di identità minaccia di farsi sempre più grave quanto più la donna si inserisce nei ruoli di potere, quei ruoli direttivi che un tempo erano appannaggio esclusivo dell’uomo. Quei ruoli che hanno persino il nome declinato solo al maschile.
E quando, timidamente, osiamo dire “Ministra” o “Sindaca” o “Professora”, diamo fastidio, ci avvertono che è superfluo, come se le parole non avessero un significato profondo. Come se non fossero le parole a definire l’orizzonte in cui viviamo.
L’errore pare consista in un intento delle donne a voler omologare il modello maschile.
Forse è vero in parte. Abbiamo confuso il femminismo con l’aspirazione a diventare uguale all’uomo e in questa gara insensata abbiamo dimenticato troppe volte noi stesse e siamo state misogine nell’accettare passivamente un femminile disegnato dagli uomini. Uno stereotipo.
Gli stereotipi sono gabbie che hanno dentro un senso implicito di inferiorità, di sudditanza, quasi di colpevolezza, che ci impediscono di prendere il mondo in tutte le sue sfaccettature.
La violenza esplode a partire da questa confusione nella dialettica sociale e familiare che rende la donna soggetto di una visione del reale e di una mentalità che non è la sua ma è quella dell’uomo.
Simona Tarzia
[1] III Rapporto EU.R.E.S. sul femminicidio, novembre 2015.
Sono una giornalista con il pallino dell’ambiente e mi piace pensare che l’informazione onesta possa risvegliarci da questa anestesia collettiva che permette a mafiosi e faccendieri di arricchirsi sulle spalle del territorio e della salute dei cittadini.
Il mio impegno nel giornalismo d’inchiesta mi è valso il “Premio Cronista 2023” del Gruppo Cronisti Liguri-FNSI per un mio articolo sul crollo di Ponte Morandi. Sono co-autrice di diversi reportage tra cui il docu “DigaVox” sull’edilizia sociale a Genova; il cortometraggio “Un altro mondo è possibile” sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano; “Terra a perdere”, un’inchiesta sui poligoni NATO in Sardegna.