Oltre la notiziaPunti di Vista

Migranti, profughi o clandestini? Come una parola orienta la percezione

 
Il nuovo Codice deontologico dei giornalisti richiama l’attenzione sull’uso corretto delle parole nel racconto delle migrazioni. Studi e analisi mostrano come termini diversi — migrante, profugo, clandestino — orientino la percezione pubblica e alimentino narrazioni politiche contrapposte. In Italia e in Europa, media e social continuano a rappresentare l’immigrazione attraverso toni emergenziali, confermando che il vero confine da superare è quello del linguaggio.

Parole che dividono: come Salvini e Farage li trasformano in minacce, mentre Corbyn tenta di restituire umanità

Migranti su Twitter: la battaglia politica che divide l’Italia

Il risultato è una forte polarizzazione: a destra dominano slogan come #portichiusi e #stopinvasione; a sinistra rispondono #portiaperti e #restiamoumani. Al centro, il M5S appare oscillante, diviso tra posizioni filogovernative e aperture ai temi umanitari, mentre le ONG spingono costantemente per un’agenda pro-accoglienza.

La figura di Matteo Salvini emerge come perno del dibattito: attaccato e difeso, è il nome più ricorrente nei due fronti principali. Eventi come il caso della nave Sea-Watch 3 o la crisi del governo Conte hanno acceso picchi di attività online, spesso riflettendo – o anticipando – gli scontri politici reali.

In definitiva, lo studio mostra come sui social l’immigrazione sia usata meno per discutere di politiche concrete e più come arma retorica per consolidare comunità e alimentare lo scontro. Il terreno della contesa non è il mare Mediterraneo, ma la timeline di Twitter.

Immigrazione e media: quando i confini diventano simboli

Il discorso mediatico concentra l’attenzione sulla frontiera marittima, trasformando il Mediterraneo e Lampedusa in simboli di un Paese sotto assedio. Accanto a questo si consolida l’associazione tra immigrazione e cronaca nera, che alimenta l’idea tautologica secondo cui lo straniero coincide con il pericolo. Un terzo livello riguarda la dimensione culturale e religiosa: l’Islam diventa emblema di alterità minacciosa, con il velo, le moschee e il terrorismo ridotti a stereotipi che semplificano e distorcono la complessità.

Il risultato è un’immagine statica e deformata, lontana dalla realtà dei numeri, che mostra come la maggior parte degli ingressi avvenga per vie regolari. Ma nella narrazione pubblica domina ancora la figura del clandestino. Così, tra metafore belliche e cronache selettive, i media contribuiscono a consolidare l’idea di un Paese assediato e a rafforzare agende politiche fondate sulla paura. La frontiera più dura da varcare non è il mare di Lampedusa, ma quella costruita ogni giorno da parole e immagini nei notiziari.

La guerra in Ucraina

Il dato più evidente è il cambiamento terminologico: se in passato i migranti provenienti da Siria, Afghanistan o paesi africani erano spesso descritti con parole legate a insicurezza e minaccia — “illegale”, “violenza”, “terrorista” — con gli ucraini si è imposto un lessico più empatico e positivo. I media hanno parlato di “rifugiati”, anzi di “veri rifugiati”, “profughi di guerra”, spostando così il discorso pubblico da un registro securitario a uno umanitario.

La ricerca mostra che in paesi come Polonia e Germania il cambiamento è stato particolarmente visibile: la copertura mediatica ha assunto toni più accoglienti, parlando di sostegno, protezione e aiuto. Al contrario, nei mesi precedenti — durante la crisi al confine tra Bielorussia e UE — lo stesso tema migratorio era raccontato con accenti molto più negativi, associato a emergenze e minacce.

Anche sui social la differenza si è fatta notare: mentre in passato le discussioni erano polarizzate e dominate da diffidenza, con l’arrivo dei profughi ucraini le risposte hanno mostrato una netta impennata di atteggiamenti positivi e solidali. Tuttavia, avvertono gli autori, questo cambio di prospettiva non è stato uniforme né stabile: in diversi paesi europei l’ondata di solidarietà si è attenuata dopo pochi mesi.

Se gli ucraini sono stati accolti come “rifugiati”, è perché i media hanno scelto di raccontarli così, sottolineandone la vicinanza culturale e il carattere umanitario della crisi. Una scelta che segna un netto contrasto con la narrazione riservata ad altri migranti, e che rivela quanto le etichette possano fare la differenza.

La Carta di Roma del 2024 e l’uso delle parole

Il racconto delle migrazioni nei media italiani continua a oscillare tra numeri, politica e narrazioni emergenziali. Lo mostra l’analisi dei titoli condotta dall’Associazione Carta di Roma sui principali quotidiani nazionali. Nei primi dieci mesi del 2024 sono stati registrati 4.511 titoli, il 34% in meno rispetto allo stesso periodo del 2023. Una diminuzione significativa, ma che non equivale a un ridimensionamento del tema: il fenomeno migratorio resta infatti centrale, trattato soprattutto attraverso la lente della politica e delle decisioni istituzionali.

Il legame tra numero di sbarchi e quantità di titoli appare sempre più debole. Nel 2024, a fronte di un calo degli arrivi via mare, la copertura mediatica si è ridotta, ma in misura meno marcata. In passato, al contrario, si sono registrati picchi di titoli anche in presenza di sbarchi ridotti, segno che la narrazione mediatica segue logiche proprie, spesso legate a eventi politici o tragedie simboliche come il naufragio di Cutro.

Sul piano lessicale, i protagonisti del 2024 sono le istituzioni: il termine più ricorrente è “migrante”, seguito da “Italia”, “Meloni”, “UE”, “Albania” e “Salvini”. È il segno di una copertura che privilegia la dimensione politica e normativa del fenomeno, più che quella umanitaria. Emergono tuttavia anche temi legati al lavoro e allo sfruttamento, con richiami a incidenti mortali e al caporalato, mentre la dimensione della traversata via mare, pur presente, ha perso centralità rispetto agli anni scorsi.

Migranti, emergenza perpetua

L’analisi storica del lessico, dal 2013 a oggi, mostra un tratto costante: la cornice dell’“emergenza perpetua”. Parole come “crisi”, “allarme”, “invasione” e “minaccia” ricorrono stabilmente, alimentando una narrazione che fatica a riconoscere la migrazione come fenomeno strutturale. Se nel tempo si nota un lieve calo nell’uso di termini apertamente denigratori come “clandestino”, la loro presenza resta significativa, soprattutto in testate politicamente orientate.

Nel 2022, con l’arrivo massiccio degli ucraini e il rapido riconoscimento della protezione temporanea, la seconda serie di termini aveva guadagnato spazio, restituendo una narrazione più vicina alla solidarietà. Ma già dal 2023 il linguaggio è tornato a privilegiare le parole che marcano la distanza e l’emergenza, con solo qualche variazione legata alle guerre in corso, come quella di Gaza.

Il quadro complessivo è quello di una copertura mediatica che, pur riducendosi nei numeri, resta intrisa di toni emergenziali e di forte politicizzazione. Una rappresentazione che contribuisce a plasmare la percezione collettiva delle migrazioni, spesso più come problema da gestire che come realtà sociale con cui convivere.

Il confine più difficile da attraversare non è quello del Mediterraneo, ma quello tracciato ogni giorno dalle parole. Finché migranti e rifugiati resteranno etichette, masse indistinte o slogan da campagna elettorale, il racconto pubblico continuerà a produrre paura e distanza. Ma è dal lessico che passa la possibilità di un cambiamento: chiamare le persone per ciò che sono — uomini, donne, bambini con storie, diritti e doveri — significa restituire umanità a un fenomeno che la politica e i media hanno trasformato in perenne emergenza e che non sembrano in grado di risolvere.

 

Fivedabliu.it

Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta

Lascia un commento

Share via
Copy link