Migranti, profughi o clandestini? Come una parola orienta la percezione
Il nuovo Codice deontologico dei giornalisti richiama l’attenzione sull’uso corretto delle parole nel racconto delle migrazioni. Studi e analisi mostrano come termini diversi — migrante, profugo, clandestino — orientino la percezione pubblica e alimentino narrazioni politiche contrapposte. In Italia e in Europa, media e social continuano a rappresentare l’immigrazione attraverso toni emergenziali, confermando che il vero confine da superare è quello del linguaggio.
Il 1° giugno 2025 è entrato in vigore il nuovo Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti, che ha sostituito il precedente Testo unico dei doveri del giornalista. Tra le novità più rilevanti spicca l’Articolo 14, dedicato a “Persone migranti e rifugiate”, che pone al centro il ruolo delle parole nel racconto delle migrazioni.
Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma di un cambio di prospettiva che recepisce anni di dibattito sul linguaggio dei media e il suo impatto sulla percezione pubblica. Il Codice chiede infatti ai cronisti di usare termini rispettosi e accurati, di evitare espressioni discriminatorie o stigmatizzanti e di proteggere identità e dignità delle persone coinvolte. In altre parole, invita a trattare le migrazioni non come una questione astratta o emergenziale, ma come una realtà che riguarda individui concreti.
È un passaggio che si inserisce nel solco tracciato dall’Associazione Carta di Roma, da anni impegnata a monitorare le narrazioni mediatiche sull’immigrazione e a promuovere una comunicazione eticamente corretta. Dati e analisi mostrano come il lessico giornalistico abbia spesso oscillato tra il frame dell’“emergenza” e quello della “minaccia”, contribuendo a consolidare stereotipi e paure. Proprio per questo il nuovo articolo del Codice rappresenta un tassello cruciale: ricordare che le parole non sono neutre e che il modo in cui vengono scelte può cambiare il modo in cui la società guarda ai migranti.
Il linguaggio dei media non è mai neutrale: le parole scelte per descrivere fenomeni complessi, come, in questo caso le migrazioni, plasmano la percezione pubblica. Definizioni apparentemente simili – migrante, profugo, rifugiato, clandestino – generano racconti diversi, che vanno dal dramma umanitario alla minaccia securitaria.
Parole che dividono: come Salvini e Farage li trasformano in minacce, mentre Corbyn tenta di restituire umanità
Tra il 2016 e il 2018, anni di Brexit e di “crisi dei rifugiati”, quattro leader politici – Nigel Farage e Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Matteo Salvini e Matteo Renzi in Italia – hanno costruito la loro narrazione sull’immigrazione con strumenti linguistici molto diversi. Ma con un tratto comune: i migranti sono diventati terreno di scontro, pedine retoriche più che persone reali.
Lo studio di Maria Ivana Lorenzetti dell’Università di Verona, mette sotto la lente le parole ricorrenti nei loro discorsi: “immigrazione”, “migranti”, “rifugiati”, “richiedenti asilo”. E il quadro che emerge è fortemente polarizzato.
Da un lato, la destra populista. Farage in Inghilterra e Salvini in Italia fanno leva sul linguaggio della minaccia: “invasione”, “clandestini”, “illegali”. Nei loro discorsi i migranti non hanno nomi né storie, ma diventano numeri, masse indistinte, problema da fermare o controllare. Farage insiste sull’impatto economico e culturale, Salvini sul legame con criminalità e insicurezza. Entrambi evocano uno scenario di paura, dove l’“altro” è sempre potenziale nemico.
Dall’altro lato, le voci della sinistra. Corbyn parla di migranti come vittime di sfruttamento e risorsa per il sistema sanitario britannico. Usa parole come “diritti”, “crisi umanitaria”, “minori”. Renzi, oggi di area riformista, rifiuta la retorica dell’emergenza ( ma qui siamo nel 2022 e Renzi è altalenante nei suoi convincimenti) e ricorda che l’Italia stessa è una terra di migrazione fin dai tempi dell’antica Roma. Tuttavia, anche nei loro discorsi i migranti restano spesso categorie astratte: “quote”, “emergenza”, “questione da gestire”.
Il risultato? Al di là delle contrapposizioni, la lingua della politica tende a spersonalizzare. Migranti e rifugiati vengono collettivizzati, ridotti a blocchi omogenei, mai rappresentati come individui con volti e storie. Così, il lessico politico finisce per alimentare stereotipi e rinforzare la distanza tra “noi” e “loro”.
Un dato inquietante emerge chiaramente: la partita sull’immigrazione non si gioca solo nei porti o alle frontiere, ma soprattutto nelle parole. È nel linguaggio – ripetuto, martellato, semplificato – che i leader politici costruiscono paure, giustificano politiche e legittimano pregiudizi. E i migranti, ancora una volta, restano ostaggi della narrazioni.
Migranti su Twitter: la battaglia politica che divide l’Italia
Nel 2019, tra elezioni europee, crisi di governo e sbarchi contestati, Twitter è stato il campo di battaglia del dibattito italiano sulla migrazione. Uno studio condotto da ricercatori della Scuola Normale di Pisa, dell’IMT di Lucca e dell’Università di Trento ha analizzato oltre 5 milioni di tweet pubblicati tra maggio e novembre.
La ricerca fotografa un Paese digitale spaccato in comunità ben definite, che ricalcano le forze politiche reali: destra (Lega e Fratelli d’Italia), centrosinistra (PD e Italia Viva), Movimento 5 Stelle, Forza Italia, oltre a una galassia di media, ONG e organizzazioni internazionali. Ogni gruppo si muove in un proprio ecosistema di retweet, rafforzando identità e appartenenza.
Il risultato è una forte polarizzazione: a destra dominano slogan come #portichiusi e #stopinvasione; a sinistra rispondono #portiaperti e #restiamoumani. Al centro, il M5S appare oscillante, diviso tra posizioni filogovernative e aperture ai temi umanitari, mentre le ONG spingono costantemente per un’agenda pro-accoglienza.
La figura di Matteo Salvini emerge come perno del dibattito: attaccato e difeso, è il nome più ricorrente nei due fronti principali. Eventi come il caso della nave Sea-Watch 3 o la crisi del governo Conte hanno acceso picchi di attività online, spesso riflettendo – o anticipando – gli scontri politici reali.
In definitiva, lo studio mostra come sui social l’immigrazione sia usata meno per discutere di politiche concrete e più come arma retorica per consolidare comunità e alimentare lo scontro. Il terreno della contesa non è il mare Mediterraneo, ma la timeline di Twitter.
Immigrazione e media: quando i confini diventano simboli
In Italia l’immigrazione non è soltanto cronaca, ma un racconto che costruisce paure, identità e persino politiche. Lo mostra Marco Bruno , docente alla Sapienza, analizzando trent’anni di rappresentazioni giornalistiche del fenomeno. Il copione è sempre lo stesso: sbarchi raccontati come emergenze, titoli che parlano di invasioni e assalti, immagini televisive di barconi stracolmi trasformate in icone.
Il discorso mediatico concentra l’attenzione sulla frontiera marittima, trasformando il Mediterraneo e Lampedusa in simboli di un Paese sotto assedio. Accanto a questo si consolida l’associazione tra immigrazione e cronaca nera, che alimenta l’idea tautologica secondo cui lo straniero coincide con il pericolo. Un terzo livello riguarda la dimensione culturale e religiosa: l’Islam diventa emblema di alterità minacciosa, con il velo, le moschee e il terrorismo ridotti a stereotipi che semplificano e distorcono la complessità.
Il risultato è un’immagine statica e deformata, lontana dalla realtà dei numeri, che mostra come la maggior parte degli ingressi avvenga per vie regolari. Ma nella narrazione pubblica domina ancora la figura del clandestino. Così, tra metafore belliche e cronache selettive, i media contribuiscono a consolidare l’idea di un Paese assediato e a rafforzare agende politiche fondate sulla paura. La frontiera più dura da varcare non è il mare di Lampedusa, ma quella costruita ogni giorno da parole e immagini nei notiziari.
La guerra in Ucraina
La guerra in Ucraina non ha soltanto cambiato gli equilibri geopolitici, ma ha trasformato anche il linguaggio con cui in Europa si parla di migrazione. È quanto emerge dallo studio Migration Reframed? condotto da Sergej Wildemann, Claudia Niederée ed Erick Elejalde , che analizza milioni di tweet di testate giornalistiche europee e le relative reazioni sui social.
Il dato più evidente è il cambiamento terminologico: se in passato i migranti provenienti da Siria, Afghanistan o paesi africani erano spesso descritti con parole legate a insicurezza e minaccia — “illegale”, “violenza”, “terrorista” — con gli ucraini si è imposto un lessico più empatico e positivo. I media hanno parlato di “rifugiati”, anzi di “veri rifugiati”, “profughi di guerra”, spostando così il discorso pubblico da un registro securitario a uno umanitario.
La ricerca mostra che in paesi come Polonia e Germania il cambiamento è stato particolarmente visibile: la copertura mediatica ha assunto toni più accoglienti, parlando di sostegno, protezione e aiuto. Al contrario, nei mesi precedenti — durante la crisi al confine tra Bielorussia e UE — lo stesso tema migratorio era raccontato con accenti molto più negativi, associato a emergenze e minacce.
Anche sui social la differenza si è fatta notare: mentre in passato le discussioni erano polarizzate e dominate da diffidenza, con l’arrivo dei profughi ucraini le risposte hanno mostrato una netta impennata di atteggiamenti positivi e solidali. Tuttavia, avvertono gli autori, questo cambio di prospettiva non è stato uniforme né stabile: in diversi paesi europei l’ondata di solidarietà si è attenuata dopo pochi mesi.
Se gli ucraini sono stati accolti come “rifugiati”, è perché i media hanno scelto di raccontarli così, sottolineandone la vicinanza culturale e il carattere umanitario della crisi. Una scelta che segna un netto contrasto con la narrazione riservata ad altri migranti, e che rivela quanto le etichette possano fare la differenza.
La Carta di Roma del 2024 e l’uso delle parole
Il racconto delle migrazioni nei media italiani continua a oscillare tra numeri, politica e narrazioni emergenziali. Lo mostra l’analisi dei titoli condotta dall’Associazione Carta di Roma sui principali quotidiani nazionali. Nei primi dieci mesi del 2024 sono stati registrati 4.511 titoli, il 34% in meno rispetto allo stesso periodo del 2023. Una diminuzione significativa, ma che non equivale a un ridimensionamento del tema: il fenomeno migratorio resta infatti centrale, trattato soprattutto attraverso la lente della politica e delle decisioni istituzionali.
Il legame tra numero di sbarchi e quantità di titoli appare sempre più debole. Nel 2024, a fronte di un calo degli arrivi via mare, la copertura mediatica si è ridotta, ma in misura meno marcata. In passato, al contrario, si sono registrati picchi di titoli anche in presenza di sbarchi ridotti, segno che la narrazione mediatica segue logiche proprie, spesso legate a eventi politici o tragedie simboliche come il naufragio di Cutro.
Sul piano lessicale, i protagonisti del 2024 sono le istituzioni: il termine più ricorrente è “migrante”, seguito da “Italia”, “Meloni”, “UE”, “Albania” e “Salvini”. È il segno di una copertura che privilegia la dimensione politica e normativa del fenomeno, più che quella umanitaria. Emergono tuttavia anche temi legati al lavoro e allo sfruttamento, con richiami a incidenti mortali e al caporalato, mentre la dimensione della traversata via mare, pur presente, ha perso centralità rispetto agli anni scorsi.
Migranti, emergenza perpetua
L’analisi storica del lessico, dal 2013 a oggi, mostra un tratto costante: la cornice dell’“emergenza perpetua”. Parole come “crisi”, “allarme”, “invasione” e “minaccia” ricorrono stabilmente, alimentando una narrazione che fatica a riconoscere la migrazione come fenomeno strutturale. Se nel tempo si nota un lieve calo nell’uso di termini apertamente denigratori come “clandestino”, la loro presenza resta significativa, soprattutto in testate politicamente orientate.
Nel 2022, con l’arrivo massiccio degli ucraini e il rapido riconoscimento della protezione temporanea, la seconda serie di termini aveva guadagnato spazio, restituendo una narrazione più vicina alla solidarietà. Ma già dal 2023 il linguaggio è tornato a privilegiare le parole che marcano la distanza e l’emergenza, con solo qualche variazione legata alle guerre in corso, come quella di Gaza.
Il quadro complessivo è quello di una copertura mediatica che, pur riducendosi nei numeri, resta intrisa di toni emergenziali e di forte politicizzazione. Una rappresentazione che contribuisce a plasmare la percezione collettiva delle migrazioni, spesso più come problema da gestire che come realtà sociale con cui convivere.
Il confine più difficile da attraversare non è quello del Mediterraneo, ma quello tracciato ogni giorno dalle parole. Finché migranti e rifugiati resteranno etichette, masse indistinte o slogan da campagna elettorale, il racconto pubblico continuerà a produrre paura e distanza. Ma è dal lessico che passa la possibilità di un cambiamento: chiamare le persone per ciò che sono — uomini, donne, bambini con storie, diritti e doveri — significa restituire umanità a un fenomeno che la politica e i media hanno trasformato in perenne emergenza e che non sembrano in grado di risolvere.