Italiani brava gente
L’industria bellica parla il linguaggio dell’economia: fatturati, export, occupazione. Ma dietro i numeri, c’è sempre qualcuno che muore
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Il lato “rispettabile” della guerra
Costruire armi è diventata un’attività accettabile. Un gesto industriale, burocratico, persino neutro. Una pratica che, nel linguaggio dei comunicati stampa, “genera valore per il sistema Paese”, “rafforza la competitività” e “sostiene l’occupazione qualificata”.
In effetti, i numeri ci sono: l’export di sistemi d’arma italiani vale miliardi, contribuisce al PIL e alimenta un indotto che impiega decine di migliaia di persone tra fabbriche, subfornitori e servizi logistici. È la ricchezza che nasce dalla polvere da sparo, trasformata in statistica economica.
Ma dietro i grafici sulla crescita e i sorrisi nei convegni sulla “difesa europea” si nasconde un paradosso: quella stessa industria che promette stabilità e benessere produce lutti per altri.
Un lupo vestito da agnello, che si presenta come motore di progresso mentre alimenta i conflitti del mondo. E così la guerra, da tragedia collettiva, diventa una voce in attivo nel bilancio nazionale — un pacco bomba sotto l’albero di Natale, incartato con la carta dorata dell’economia.
Ogni anno, nel mondo, vengono fabbricate milioni di armi da fuoco. Vengono catalogate, registrate, vendute, spedite.
La loro traiettoria parte da capannoni perfettamente legali e finisce spesso in scenari che legali non sono: guerre civili, repressioni, traffici clandestini, massacri di civili. Eppure, nel nostro immaginario, questo passaggio resta invisibile.
Le bombe scoppiano “altrove”, i morti appartengono a “qualcun altro”. Noi assistiamo, scioccati ma distaccati, e dopo qualche minuto scorriamo oltre, verso un’altra notizia, un altro video, un’altra indignazione passeggera, un meme stupido o scenette social pietose.
Le aziende produttrici rivendicano la legalità delle loro attività, ed è vero: producono secondo le leggi, vendono con licenze, firmano contratti approvati dagli Stati. Ma le stesse armi che escono dai loro magazzini, lucide e perfette, finiscono per passare di mano in mano fino a essere impugnate in contesti di cui nessuno, ufficialmente, si assume la responsabilità.
Una pistola può percorrere migliaia di chilometri prima di sparare il suo primo colpo. Può cambiare proprietario cinque, dieci volte. Può essere venduta, rubata, contrabbandata, scambiata, modificata. In questo tragitto, la linea tra legalità e illegalità si dissolve. Gli esperti la chiamano diversion, deviazione: il momento in cui un’arma prodotta legalmente scivola nel mercato nero. Accade durante un trasporto, in un magazzino, in un paese di transito, o in uno di quei paradisi normativi dove controlli e licenze sono solo carta.
C’è poi la complicità silenziosa dei governi.
Molti Stati esportano armi in paesi dove sanno che i diritti umani vengono calpestati, giustificando la scelta con formule diplomatiche: “interessi strategici”, “stabilità regionale”, “alleanze necessarie”.
Così, la guerra non è più percepita come un fallimento, ma come una necessità che alimenta un’economia. E noi, spettatori di questa normalità, raramente ci chiediamo: chi fabbrica le armi che uccidono? Chi le vende? E soprattutto: in che misura, anche noi, ne siamo parte?
Quando vediamo le immagini di Gaza, di Kharkiv, di Aleppo, di Khartoum — bambini sotto le macerie, ospedali colpiti, colonne di fumo che cancellano le città — proviamo indignazione, paura, pietà. Ma raramente seguiamo la scia del metallo. Non chiediamo chi ha realizzato il missile che ha colpito una scuola, chi ha assemblato la granata esplosa in un mercato.
Non ci chiediamo quanti intermediari ci siano tra una fabbrica europea o americana e quel cratere nel suolo. Eppure, la risposta non è lontana: spesso è qui, tra noi, nei distretti industriali dove lavorano migliaia di persone con stipendi onesti e contratti regolari. Lavorano per un settore che chiama se stesso “difesa”, ma che produce strumenti pensati per uccidere.
Le fiere internazionali delle armi si tengono ogni anno, e sono veri e propri saloni del business. Vetrine scintillanti, slogan sulla sicurezza e sulla tecnologia, contratti milionari firmati tra strette di mano e cene di gala. Nessuno parla di cadaveri, di sangue, di amputazioni.
Lì si parla di “sistemi”, “prestazioni”, “innovazione”. È il linguaggio neutro del mercato, che trasforma la guerra in un servizio, la morte in una voce di bilancio.
Intanto, nei teatri di conflitto, le armi scorrono come olio nelle ingranature di una macchina che non si ferma mai.
C’è chi le compra per difendersi, chi per attaccare, chi per sopravvivere, chi per arricchirsi. Ogni guerra è anche un mercato: di metalli, di contratti, di rottami e di vite.
I civili ne sono il carburante.
Sono loro — non i soldati, che almeno conoscono il rischio — a morire in silenzio, senza uniforme e senza scelta. Donne, uomini, bambini che un giorno vanno a scuola, al lavoro, al mercato, e il giorno dopo finiscono in una fossa comune. Vittime di un meccanismo che parte lontano, forse in un laboratorio, forse in una fabbrica con la bandiera di un paese “civile”.
Non serve essere pacifisti radicali per porsi la domanda: è inevitabile?
Davvero il mondo non può fare a meno della produzione costante di armi, della loro esportazione, della loro “modernizzazione”?
Davvero è impensabile concepire un’economia che non si regga anche su questa filiera di morte? Le risposte, per ora, sono state comode. La guerra è altrove. Le armi servono a difendere. I posti di lavoro vanno salvaguardati. E così la catena si chiude: chi produce non pensa a chi spara, chi vende non pensa a chi muore, chi guarda non pensa di far parte del problema.
In fondo, è questa la vera vittoria dell’industria bellica: essere diventata invisibile.
A differenza di altri settori, non ha bisogno di pubblicità per sopravvivere. Non deve convincere il consumatore finale. Si muove sotto il livello della coscienza collettiva, eppure tocca ogni livello della nostra vita: politica, economia, cultura. E così continuiamo a vivere le nostre vite tranquille, a preoccuparci del costo della benzina, del mutuo, dei titoli in borsa, mentre da qualche parte nel mondo un missile, magari costruito con componenti esportate dal nostro stesso paese, distrugge una casa, cancella una famiglia, riduce in cenere un quartiere.
Finché non impareremo a guardare il nesso diretto tra la fabbrica e la fossa, tra la produzione e la distruzione, continueremo a stupirci delle guerre come se fossero tempeste improvvise, calamità naturali, fatalità.
Non lo sono.
Ogni proiettile ha una provenienza. Ogni bomba ha un marchio.
E se seguissimo la scia del metallo fino in fondo, potremmo scoprire che quella scia ci porta più vicino di quanto vorremmo: dentro le nostre economie, dentro i nostri parlamenti, dentro la nostra indifferenza.
E forse proveremmo di nuovo quella sensazione antica ormai sopita: la vergogna.
Sempre più armi italiane all’estero: i numeri
Quando, a inizio 2025, il Governo ha trasmesso al Parlamento la nuova Relazione annuale sulle esportazioni militari, il titolo “Sempre più armi italiane all’estero” non è sembrato affatto un’esagerazione giornalistica.
I numeri contenuti nel documento parlano chiaro: nel 2024 l’Italia ha autorizzato esportazioni di armamenti per un valore complessivo di 8,69 miliardi di euro, di cui 7,94 miliardi riferiti alle sole licenze individuali destinate a specifici Paesi o contratti.
Si tratta di un incremento netto rispetto all’anno precedente, con un balzo di circa il 35% nelle autorizzazioni individuali. A trainare la crescita sono soprattutto le commesse per Paesi del Medio Oriente, dell’Asia e dell’Africa settentrionale, che restano tra i principali clienti dell’industria militare italiana.
Dietro l’aumento, però, si nascondono alcune precisazioni necessarie. Le cifre record si riferiscono infatti alle autorizzazioni, non alle esportazioni effettive. In altre parole, si tratta dei permessi concessi dal governo alle aziende per vendere armi all’estero, ma non necessariamente di consegne già avvenute. Nel 2024, infatti, il valore delle esportazioni definitive – cioè il materiale effettivamente uscito dai confini nazionali – si è fermato a circa 3,58 miliardi di euro, in calo rispetto ai 4,63 miliardi registrati nel 2023.
Una discrepanza che ha un peso politico rilevante. Le autorizzazioni rappresentano un segnale chiaro di orientamento: indicano dove e quanto lo Stato italiano è disposto a permettere il commercio di armi, anche verso aree di crisi. Le consegne, invece, rispondono a tempistiche industriali e logistiche che spesso si protraggono per anni.
Secondo Rete Pace e Disarmo e altre organizzazioni della società civile, l’aumento delle licenze è un campanello d’allarme: dimostra che la politica di controllo dell’export sta diventando sempre più permissiva. E non è tutto. Una proposta di revisione della legge 185 del 1990 – la norma che regola la trasparenza del commercio di armamenti – rischia di rendere più difficile, in futuro, verificare nel dettaglio i flussi e i destinatari delle forniture.
Italia e Israele
La parte più delicata del rapporto riguarda Israele. Nelle carte ufficiali del Ministero degli Esteri non compare tra i destinatari del 2024, e il Governo sottolinea che “le caratteristiche dell’intervento israeliano a Gaza hanno indotto l’Autorità UAMA a non concedere nuove licenze di esportazione ai sensi della Legge 185/1990”.
Tradotto dal politichese alla lingua di tutti i giorni, dopo il 7 ottobre 2023, nessuna nuova autorizzazione. Ma quelle vecchie restano valide.
Il dato emerge anche nel rapporto dell’Agenzia delle Dogane: nel 2024 sono state registrate 212 esportazioni di materiale militare verso Israele per un valore che oscilla tra i 4 e i 5 milioni di euro, tutte riferite a licenze già rilasciate.
E non è tutto: nello stesso anno l’Italia ha importato da Israele armi e componenti per quasi 155 milioni di euro, con 42 nuove licenze d’importazione attive.
Un interscambio che, in pratica, rende Tel Aviv uno dei principali partner militari di Roma.
Il cortocircuito politico è arrivato quando Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo (controllata pubblica), ha ammesso al Corriere della Sera che “le esportazioni verso Israele non si sono mai interrotte del tutto dopo il 7 ottobre 2023”.
La giustificazione è sottile: si tratterebbe di “manutenzioni di elicotteri e aerei da addestramento non armati”. Ma resta il fatto che il più grande gruppo industriale della difesa italiana ha confermato ciò che il Governo negava da mesi.
A quel punto, il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli ha dovuto precisare che “una licenza è stata sospesa e poi revocata in via cautelativa”, assicurando che “gli invii successivi riguardavano solo materiali che non potevano essere utilizzati contro la popolazione civile”.
Una puntualizzazione che ha lasciato insoddisfatti molti osservatori, secondo cui “se il Governo è preoccupato per Gaza, non si capisce perché sia così difficile bloccare tutte le esportazioni”, come commenta la Rete Italiana Pace e Disarmo su ilfattoquotidiano.it.
Legalità o moralità?
Il confine è sottile. Formalmente, nessuna legge è stata infranta: la 185/90 consente esportazioni già autorizzate, salvo sospensioni specifiche. Ma la trasparenza resta un miraggio.
Tra le altre cose, l’ombra più grande riguarda il futuro. In Parlamento è in discussione un emendamento alla Legge 185/90 che ridurrebbe l’obbligo di rendicontazione pubblica delle licenze.
Se approvato, il Rapporto 2025 potrebbe essere l’ultimo documento trasparente sull’export militare italiano.
E allora sì, resterebbero solo i numeri — ma senza più nomi, destinazioni o responsabilità.
Nel frattempo, mentre la legge resta “formalmente rispettata”, le armi italiane continuano a viaggiare. Cambiano solo i timbri, non le rotte.

Le bombe italiane sui civili yemeniti
Nell’ultimo decennio, la guerra in Yemen ha causato decine di migliaia di morti civili, bombardamenti indiscriminati e una crisi umanitaria senza precedenti. Eppure, tra i frammenti di molte bombe cadute su scuole e villaggi, compaiono numeri di serie italiani.
Una vicenda che intreccia politica estera, interessi economici e responsabilità morali: l’Italia, e con essa l’Europa, chiamate a rispondere del proprio ruolo in un conflitto lontano solo in apparenza.
È l’8 ottobre 2016, quando nel villaggio di Deir Al-Ḩajārī, nel nord-ovest dello Yemen, un bombardamento notturno rase al suolo una casa civile. Sei persone morirono sul colpo, tra loro quattro bambini e una donna incinta.
L’unico sopravvissuto, gravemente ferito, avrebbe poi raccontato di non aver sentito arrivare l’aereo, solo un sibilo improvviso e il lampo di luce.
Sotto le macerie, gli osservatori di Mwatana for Human Rights trovarono resti metallici contrassegnati da un numero di serie: appartenevano a una bomba MK80 e a un attacco di sospensione prodotti in Italia dalla RWM S.p.A., filiale della multinazionale tedesca Rheinmetall.
L’arma proveniva da un lotto esportato pochi mesi prima verso l’Arabia Saudita, uno dei paesi che guida la coalizione militare responsabile di migliaia di raid aerei in Yemen. Quella traccia aprì un fronte giudiziario che avrebbe messo in discussione la responsabilità dell’Italia — e più in generale dell’Europa — nella guerra più dimenticata del Medio Oriente.
Nel 2018, tre organizzazioni – l’European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), Mwatana e la Rete Italiana Pace e Disarmo – presentarono una denuncia alla Procura di Roma. Accusavano i dirigenti di RWM Italia e i funzionari dell’UAMA, l’Autorità nazionale per l’esportazione di materiali d’armamento, di aver autorizzato forniture militari a paesi coinvolti in crimini di guerra, violando il Trattato sul Commercio delle Armi e la legge 185 del 1990, che vieta esportazioni verso paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.
L’indagine venne aperta, ma in forma ridotta. La Procura escluse subito i reati di omicidio e lesioni personali, limitandosi a ipotizzare l’abuso d’ufficio. Nel 2019 chiese l’archiviazione, sostenendo che le autorizzazioni rilasciate rispettavano le procedure formali e che le scelte dell’UAMA erano coerenti con gli “indirizzi di politica estera e di difesa dello Stato”.
Il Giudice per le Indagini Preliminari, però, non accettò la richiesta e chiese un approfondimento. Nella sua ordinanza del febbraio 2021, il GIP riconobbe la non vincolatività dei pareri forniti da altri uffici ministeriali e ribadì che la responsabilità ultima per le licenze spettava all’UAMA.
Due anni più tardi, nonostante nuove prove e documenti interni del Ministero degli Esteri che invitavano a una “pausa di riflessione” sulle esportazioni verso Riyad, l’inchiesta si è chiusa con un verdetto di archiviazione. Il 10 marzo 2023 il GIP di Roma ha stabilito che, pur essendo gli imputati consapevoli del possibile impiego delle armi italiane contro civili, non era dimostrabile un intento doloso né un vantaggio economico illecito. In sostanza, i funzionari avrebbero agito nel rispetto delle regole formali, eseguendo una politica governativa più ampia.
Per le organizzazioni per i diritti umani si tratta di una sconfitta e di un precedente pericoloso. “È paradossale che un crimine possa scomparire dietro un timbro o una firma di routine”, commentano da ECCHR. “La decisione legittima di fatto la continuità delle esportazioni e nega alle vittime ogni possibilità di giustizia.”
Il caso, tuttavia, non si è chiuso del tutto. Nel luglio 2023, i familiari delle vittime e l’unico sopravvissuto hanno presentato un ricorso contro l’Italia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.
L’accusa è grave: violazione dell’articolo 2 della Convenzione, che tutela il diritto alla vita. Secondo i ricorrenti, lo Stato italiano non solo ha consentito la vendita di armi a paesi coinvolti in attacchi illegali, ma ha anche fallito nel garantire un’indagine effettiva sui crimini di guerra.
Nel frattempo, mentre la guerra in Yemen continua a consumare vite e il Paese sprofonda nella crisi umanitaria, l’Italia ha riaperto le esportazioni di bombe e missili verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, dopo una breve sospensione decisa nel 2021.
Una scelta che appare come un ritorno all’antico equilibrio, dove la ragion di Stato e gli interessi economici dell’industria bellica pesano più della tutela dei diritti umani.
A Deir Al-Ḩajārī, al posto della casa della famiglia Husni, oggi resta solo il vuoto. I resti della bomba italiana, invece, sono conservati in una scatola di metallo, come una prova silenziosa di ciò che la giustizia non ha voluto vedere.
Le rotte nascoste del Made in Italy verso Mosca
Tutto comincia nel febbraio del 2022, quando l’Unione Europea decide di chiudere i rubinetti: embargo totale sulle esportazioni di armi e componenti militari verso la Russia.
Sulla carta, è la fine di ogni rapporto diretto tra le industrie belliche europee e il Cremlino. Nella realtà, però, quella data segna soltanto l’inizio di un nuovo capitolo.
Già a marzo 2022, poche settimane dopo le sanzioni, i numeri del commercio italiano verso l’Asia centrale iniziano a impennarsi. Le esportazioni di armi leggere e munizioni dirette in Armenia e Kirghizistan crescono di oltre il 400%. Mercati interni minuscoli, ma con dogane particolarmente “accoglienti”.
A giugno, un’inchiesta congiunta di IrpiMedia e The Insider squarcia il velo sulle triangolazioni. Al centro compare una società dal nome che lascia pochi dubbi, Russkiy Orel — “Aquila Russa” — collegata alla Beretta Holding. Il meccanismo, ormai, appare chiaro: le armi non partono più per Mosca, ma vi arrivano passando attraverso distributori di comodo nei Paesi limitrofi, in modo da non violare formalmente le sanzioni.

A settembre 2022, i dati doganali raccontano un’altra anomalia: 280.000 cartucce marchiate Fiocchi risultano esportate in Russia, nonostante le dichiarazioni ufficiali dell’azienda che assicurava di aver sospeso ogni fornitura. L’etichetta è sempre la stessa — “uso sportivo e venatorio” — ma le quantità parlano da sole.
Nel 2023 l’attenzione si sposta dai proiettili ai macchinari e alle materie prime. L’inchiesta documenta forniture di presse industriali italiane, prodotte dalla Vasini, finite nelle linee di montaggio di fabbriche russe, e spedizioni di resine epossidiche da parte di Sir Industriale e Novaresine verso aziende legate al settore dei droni e dell’aerospazio militare. È la zona grigia del cosiddetto “dual use”: prodotti civili che, con poche modifiche, diventano militari.
Nel 2024, i dati Eurostat confermano il trend: l’export armiero italiano verso l’Asia centrale continua a crescere in modo anomalo. I flussi verso Armenia, Kazakistan e Kirghizistan, Uzbekistan paesi dove, “casualmente”, le importazioni di armi leggere italiane sono cresciute di oltre 1.000% in due anni, raggiungendo livelli mai registrati prima. Le rotte si sono consolidate, le triangolazioni perfezionate.
Una volta arrivate, i prodotti seguono vie parallele fatte di società intermediarie, cambi di destinazione e dogane compiacenti. Tutto formalmente legale, tutto perfettamente registrato.
L’embargo, insomma, resta sulla carta. Ma alcune merci trovano sempre una via di fuga.
Le leggi ci sono, ma chi controlla?
L’Italia non manca di leggi, decreti e uffici competenti. C’è l’UAMA, l’Unità per le Autorizzazioni dei Materiali d’Armamento, che ogni anno pubblica un rapporto. Ma quando si cerca di capire chi compra davvero le nostre armi, la risposta arriva sempre uguale: “segreto d’ufficio”. Il che suona un po’ come: “fidatevi, va tutto bene”.
E qui nasce la sensazione che, più che di segreto di Stato, si tratti di un vero e proprio segreto industriale protetto con cura. Le aziende, dopotutto, sono abituate a lavorare con governi, eserciti, intermediari e contratti blindati. L’opinione pubblica non deve sapere troppo, perché sapere significherebbe chiedere conto. E chiedere conto, in questo settore, è sempre sconveniente.
Le rotte della legalità flessibile
Le esportazioni verso paesi terzi sono la chiave di volta di questo sistema. Un’arma può partire legalmente dall’Italia verso un paese non soggetto a embargo, e da lì essere “ri-esportata” altrove. Tutto tracciato, tutto certificato, tutto apparentemente in regola. È il diritto internazionale a prevedere la clausola dell’uso finale, che dovrebbe garantire che il fucile venduto a un tiratore sportivo non finisca in trincea. Ma chi va a controllare davvero?
Il risultato è un paradosso: un paese come l’Italia può dichiarare di non esportare armi verso zone di conflitto, mentre i suoi prodotti – attraverso triangolazioni e società controllate – finiscono esattamente lì. Un gioco delle tre tavolette dove la trasparenza, semplicemente, non compare mai.
C’è un dettaglio che va chiarito, perché in queste storie la linea tra il lecito e l’etico è sottile come la carta velina. Tutto ciò che emerge dalle inchieste su Beretta, Fiocchi e le altre aziende italiane non costituisce una violazione di legge.
Le esportazioni dirette di armi verso la Russia sono vietate, certo, ma il commercio tramite intermediari o triangolazioni con paesi non sanzionati non è illegale.
Ecco il paradosso: un’azienda italiana può vendere perfettamente in regola a un distributore armeno, che a sua volta rivende in Russia. Tutto tracciato, tutto firmato, tutto timbrato. Se poi quelle armi o munizioni finiscono nei magazzini di un regime belligerante, il produttore può alzare le mani e dire: “Non è affar mio”.
In altre parole, la legge funziona, ma a metà. È come un ombrello bucato: c’è, ma non serve a tenerti asciutto. Le sanzioni europee, nate per isolare il complesso militare russo, lasciano buchi così larghi da far passare interi container di fucili e milioni di cartucce.
Questa legalità così elastica è la vera arma segreta del mercato bellico. Fa comodo a tutti: alle aziende, che possono continuare a fatturare; agli Stati, che non devono spiegare perché i loro alleati comprano più pistole del necessario; e persino ai burocrati europei, che possono vantare “sanzioni efficaci” mentre le dogane chiudono un occhio.
Le forniture invisibili
Dalle piccole fabbriche metallurgiche delle Prealpi lombarde fino ai magazzini dell’industria bellica israeliana: è questa la rotta, tutt’altro che trasparente, ricostruita dall’Osservatorio The Weapon Watch, che da anni monitora il traffico di armi nei porti europei e mediterranei.
Il 4 febbraio 2025 la Guardia di Finanza di Ravenna ha bloccato un carico di pezzi forgiati destinati alla IMI Systems Ltd, azienda israeliana nota per la produzione delle mitragliette Uzi e dei fucili d’assalto Galil, dal 2018 assorbita da Elbit Systems, il principale contractor della difesa di Israele.
L’episodio è emerso pubblicamente solo in seguito, grazie al lavoro investigativo di Linda Maggiori, che ne ha raccontato i dettagli in un’inchiesta pubblicata su “il manifesto”, e alla successiva ricostruzione dell’associazione The Weapon Watch, che ha collegato il caso a una rete più ampia di esportazioni “invisibili” di materiali a uso militare.
Il carico, formalmente registrato come “componenti metallici civili”, era stato spedito dalla Valforge Srl di Cortenova, in provincia di Lecco, azienda specializzata nella forgiatura e nel trattamento dei metalli. Tuttavia, Valforge non risulta iscritta al Registro nazionale delle imprese autorizzate a esportare materiale militare, come prevede la legge 185 del 1990.
Nonostante ciò, la società avrebbe ricevuto una commessa diretta da Elbit Systems, producendo componenti altamente specifici, difficilmente riconducibili a un uso non bellico.
Il sequestro è stato possibile solo perché, lungo la catena logistica e documentale, alcuni operatori hanno rispettato le regole e segnalato la discrepanza tra la dichiarazione di esportazione e la reale natura del materiale. «Troppo grave era stata l’infrazione di leggi e trattati – scrive The Weapon Watch – in una tentata esportazione verso un Paese dove si commettono violazioni sistematiche dei diritti umani».
Dopo il sequestro, la rete ravennate delle associazioni per la pace ha diffuso un comunicato ricordando che l’Autorità portuale di Ravenna, già un anno prima, aveva dichiarato di non avere “alcuna informazione in merito a trasporti di armamento bellico in violazione delle leggi dello Stato”. L’invito, allora come oggi, era di denunciare ogni sospetta triangolazione verso Paesi coinvolti in conflitti.
L’inchiesta ha anche ricostruito la rete societaria dell’imprenditore Pierantonio Baruffaldi, titolare di Valforge, attivo dal 2001 nel settore della lavorazione dei metalli. Dalla Valsassina a Varese, Baruffaldi avrebbe coordinato le proprie attività attraverso una piccola holding, la B.Mecc Srl, mentre le lavorazioni del carico sequestrato sarebbero state effettuate da due aziende in provincia di Varese.
Nello stesso territorio, pochi chilometri più in là, opera un altro protagonista del settore: l’ingegnere Nicola Galperti, presidente della Ring Mill Spa di Dubino (Sondrio), gruppo da oltre 230 milioni di euro di fatturato nel 2023. Anche Ring Mill – sottolinea The Weapon Watch – ha ottenuto autorizzazioni a esportare in Germania e Israele componenti per artiglieria pesante, tra cui parti per cannoni da 155 mm destinati agli obici semoventi ATMOS 2000 prodotti da Soltam Systems, azienda del gruppo Elbit.
Due imprenditori, due aziende della stessa valle, un unico cliente: il colosso israeliano Elbit Systems, fornitore dell’esercito impegnato a Gaza. Mentre Valforge nega ogni intento illecito e chiede il dissequestro dei materiali, la Ring Mill può vantare autorizzazioni formalmente in regola — ma eticamente e politicamente controverse, perché rilasciate a fronte di un conflitto aperto.
Come conclude The Weapon Watch, il caso di Ravenna non è un episodio isolato, ma un segnale di come il confine tra industria civile e militare in Italia resti sottile, permeabile alle pressioni dei mercati e ai vuoti di controllo amministrativo.
In fondo, è sempre la stessa storia: carte in regola, timbri ufficiali, procedure rispettate. Ma dietro ogni documento perfetto, c’è una catena di responsabilità che nessuno vuole vedere, un filo che collega i nostri distretti industriali alle città in macerie dall’altra parte del mondo.
E allora la domanda non è più solo chi esporta, o verso dove, ma quanto siamo disposti a ignorare pur di continuare a chiamare “sviluppo” ciò che, in ultima analisi, è distruzione.
Perché finché la produzione d’armi resterà un comparto come un altro – con le sue fiere, i suoi grafici, le sue parole levigate – la guerra continuerà a sembrarci un evento esterno, una tragedia che non ci appartiene. Finchè non toccherà a noi.
L’immagine di copertina è puramente indicativa