I clan dei Balcani e la conquista del mercato europeo della cocaina (terza parte)
Poco conosciuto al grande pubblico, Slobodan Kostovski, è una figura di rilievo tra i narcotrafficanti internazionali
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Il Generale
Rio de Janeiro, 2018.
Dietro le mura di una prigione federale, un vecchio contrabbandiere serbo studia la sua ultima rotta. Si chiama Slobodan Kostovski, ma i suoi uomini lo chiamano “il Generale”.
È un uomo che conosce il mare, i porti, le bandiere di comodo. Conosce il modo di destreggiarsi in mare e tra i registri della dogana. Quando fugge, lo fa come ha sempre vissuto: senza lasciare tracce.
Cinque anni più tardi, un veliero viene intercettato al largo delle Canarie. A bordo, 2,7 tonnellate di cocaina e un equipaggio che tace.
Al centro di tutto, di nuovo lui. L’uomo che aveva imparato a sparire.
Slobodan Kostovski — L’uomo che veniva dalla guerra
Prima che il suo nome comparisse nei dossier dell’Interpol, Slobodan Kostovski era solo un ragazzo cresciuto in una Jugoslavia che si stava disfacendo sotto il peso della storia.
Nato nel cuore dei Balcani, a Novi Pazar il 12 aprile del 1953, imparò presto che la sopravvivenza era un mestiere, non una virtù. Gli anni Ottanta erano un periodo sospeso: la fine di Tito, la crisi, il mercato nero. Poi arrivarono le guerre, e con loro la violenza elevata a routine quotidiana.
Quando il fronte scoppiò — tra la Croazia, la Bosnia, il Kosovo — Kostovski era un uomo nel pieno della forza. Come molti della sua generazione, entrò in una milizia paramilitare legata a uno dei tanti eserciti improvvisati nati dalle macerie dell’ex Jugoslavia. Non c’erano uniformi perfette, né ideali limpidi: solo armi, benzina, sigarettte e qualsiasi cosa si potesse contrabbandare.

Ma non solo. La figura di Slobodan Kostovski è indissolubilmente legata a quella di Željko Ražnatović, noto come Arkan. Tra i due non vi fu soltanto una conoscenza superficiale o un’alleanza di circostanza, ma un rapporto di autentica amicizia, costruito negli anni e alimentato da interessi comuni, ideali condivisi e un medesimo senso di appartenenza nazionale.
Kostovski, come Arkan, apparteneva a quella generazione di uomini cresciuti nel caos dei Balcani post-titini, dove la linea che separava il patriottismo dal crimine organizzato si faceva sempre più sottile.
La loro amicizia era insieme personale e strategica: un legame di fiducia e protezione reciproca che si muoveva tra il mondo politico e quello delle reti parallele di potere. Arkan, con la sua influenza carismatica e militare, e Kostovski, con le sue relazioni e la sua visione pragmatica, rappresentavano due volti complementari dello stesso sistema. Uniti da ambizione, lealtà e opportunismo, i loro destini si intrecciarono a lungo, lasciando tracce profonde nel sottobosco del potere serbo degli anni Novanta.
Kostovski non era un ideologo, non combatteva per una bandiera. Combatteva per il controllo delle rotte, quelle che allora portavano munizioni e cibo, e che negli anni successivi avrebbero trasportato ben altro. In quei mesi di sangue e fango, maturò una convinzione che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita: ogni guerra è una questione di logistica.
Quando la pace, o quel che sembrava, tornò nei Balcani, molti ex combattenti rimasero senza un ruolo. Lui invece aveva lavorato proprio per avere un ruolo ben definito: fare il contrabbandiere.
I porti dell’Adriatico e i valichi balcanici erano pieni di uomini come lui: addestrati, con contatti in mezzo mondo e nessuna intenzione di tornare alla normalità.
Così cominciò la seconda vita di Slobodan Kostovski, quella del traffico internazionale. Dapprima piccole spedizioni di sigarette e armi; poi, gradualmente, l’ingresso nei canali più oscuri del mercato globale della droga.
Negli anni Duemila, il suo nome compare in una rete di intelligence che unisce Serbia, Brasile, Germania e Paesi Bassi. Si dice che in Brasile si muovesse come un uomo d’affari, con il portamento di chi aveva conosciuto la gerarchia e la guerra.
Gli agenti brasiliani che lo hanno seguito durante l’Operazione Niva raccontano che era preciso, metodico, ossessivo nei dettagli: non un gangster impulsivo, ma un ex ufficiale che applicava alla cocaina la stessa logica di una campagna militare.
Nel suo appartamento a Vila Velha, davanti al mare, pianificava rotte, tempi e contatti come se stesse coordinando un convoglio in territorio ostile. Le sue “unità” erano marinai montenegrini, intermediari serbi, donne che trasportavano denaro tra l’Europa e il Sud America.
Il linguaggio era sempre lo stesso di un’operazione di guerra: “copertura”, “infiltrazione”, “estrazione”.
Quando i suoi uomini lo chiamavano “il Generale”, non era una metafora. Era il riconoscimento di un’autorità conquistata sul campo, una leadership nata nel caos dei Balcani e perfezionata in operazioni illecite.
Nel 2010, dopo anni di traffici e fughe, la polizia brasiliana lo arresta con 159 chili di cocaina nascosti in blocchi di marmo destinati all’Europa. Condannato, imprigionato, sembrava finito. Ma nel 2018, durante un permesso premio, evade, scolpare come un fantasma per ricomparire in Europa, con un passaporto falso e lo stesso portamento marziale di sempre.
Cinque anni dopo, nell’estate del 2023, un veliero carico di 2,7 tonnellate di cocaina viene fermato al largo delle Canarie. È la fine di un’altra rotta, di un altro ciclo.
A Belgrado, quando lo arrestano, Kostovski ha settant’anni. I capelli grigi, lo sguardo di chi ha passato una vita a manovrare nell’ombra.
Nelle carte della polizia, accanto al suo nome, un appunto in stampatello:
“Ex militare. Esperto di logistica. Freddo. Pericoloso.”
I clan balcanici
Il potere dei clan balcanici non nasce nei grattacieli di Medellín né nei vicoli di Napoli, ma nelle rovine della Jugoslavia, tra traffici di AK47, benzina e sigarette. Quando la guerra finisce, la coca sudamericana comincia a scorrere come un fiume bianco, e i militari rimasti senza lavoro hanno già le barche, i contatti, i porti e soprattutto — una rete globale di connazionali pronti a sostenere i loro traffici.
I Balcani, per secoli terra di marinai, offrono al narcotraffico ciò che i cartelli colombiani non possiedono più: un invisibile esercito di uomini legali, marittimi, agenti di carico, doganieri, spedizionieri.
La rete si forma lentamente, in silenzio, intrecciando il Mare Adriatico all’Atlantico, il Brasile all’Albania, l’Angola a Rotterdam.
Quando la produzione sudamericana esplode, sono pronti.
Un ex agente della DEA dirà a Reuters: “Non c’è un padrino. Non c’è un capo. Solo cellule mobili, interconnesse. È la logistica perfetta.”
Tra gru e crimine: l’ascesa di Kostovski
Nei porti brasiliani di Santos, Vitória e Paranaguá, la notte non è mai davvero vuota. Container, gru e fari disegnano un paesaggio industriale dove la linea tra legalità e crimine si dissolve.
È qui che Kostovski, già evaso e reinventato, fa fortuna: un appartamento fronte oceano, una moglie brasiliana, una vita di facciata.
Sotto, un impero di pietra e polvere.
Il suo colpo più audace: nascondere la coca dentro blocchi di marmo e granito, pronti per l’esportazione in Europa.
Nel 2010 la polizia brasiliana trova 159 chili di droga in una cava vicino a Vitória. Dentro un magazzino, i blocchi sigillati con precisione chirurgica. Un piano da ingegnere, più che da criminale.
Nel 2019, negli Stati Uniti, la nave mercantile MSC Gayane viene abbordata: 18 tonnellate di cocaina, oltre un miliardo di dollari.
A bordo, cinque montenegrini e un serbo. Tutti marittimi esperti. Tutti assunti da una delle compagnie più potenti del mondo, la Mediterranean Shipping Company.
Le autorità americane restano sbalordite: i clan balcanici non sono ospiti del sistema. Sono parte del sistema.
I figli del Generale
Ogni impero ha una seconda generazione.
Nel 2023, il testimone passa ad Aleksandar Nešić, figlio del vecchio boss Goran.
È cresciuto a Guarujá, vicino al porto di Santos, respirando l’odore del carburante e del sale. Ma non è un uomo dei container come suo padre: è un innovatore. Compra barche da pesca, le modifica con serbatoi segreti e le trasforma in navi fantasma pronte ad attraversare l’Atlantico.
Il 1° aprile 2022, la marina statunitense intercetta l’Alcatraz I: 5,5 tonnellate di cocaina.
Poi un’altra, la Dom Isaac XII, con 1,2 tonnellate. Entrambe legate al giovane Nešić, arrestato a ottobre 2023.
La polizia lo definisce “il principale finanziatore dei carichi atlantici”. Lui, ovviamente nega tutto.
Balkan Cartel
Chiamarlo “cartello” è quasi un errore. Non ha un volto, non ha un nome. È, piuttosto, una mentalità.
Un modo di intendere il potere, la lealtà e il denaro che nasce dalle macerie dei Balcani e si estende ben oltre i loro confini.
Oggi Slobodan Kostovski è di nuovo in custodia. Ma la sua cattura, come spesso accade in queste storie, non ha interrotto nulla. I traffici continuano, invisibili e costanti, lungo le stesse rotte che lui e i suoi uomini hanno costruito negli anni.
Dietro la facciata si muove un sistema fluido e resiliente: ex militari balcanici, società di copertura, compagnie di navigazione e porti privati in Sud America. Una rete capace di adattarsi, frammentarsi e rinascere dopo ogni colpo subito.
“Non esiste un capo unico,” spiega un analista di Europol. “Esiste una logistica, una cultura operativa. E quella non si arresta.”
Bibliografia
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