Ambiente & Veleni

Chi beve davvero l’acqua del pianeta? Viaggio nel consumo idrico globale tra agricoltura, industria e digitale

Il futuro non dipende da quanta acqua avremo, ma da come sceglieremo di usarla

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inutiSette litri su dieci dell’acqua dolce prelevata ogni giorno nel mondo non finiscono nei nostri bicchieri, ma nei campi. È l’agricoltura, il gigante invisibile della sete globale, a divorare circa il 72% dei prelievi idrici mondiali secondo il World Water Development Report 2025 dell’ONU. L’industria segue con un 16%, mentre all’uso domestico resta solo un fragile 12%.

Dietro queste cifre si nasconde un paradosso: non è la doccia di troppo o il rubinetto aperto a prosciugare le falde, ma ciò che mangiamo, indossiamo e produciamo.

L’acqua nei campi: la sete del cibo (e del profitto)

Dal riso alla carne, dalle mandorle al cotone, il cibo e la moda sono i veri colossi dell’acqua.
Un chilo di carne bovina richiede in media 15.000 litri d’acqua. Le mandorle ne chiedono 16.000, il cotone 10.000, il riso 2.500.
Più del 40% dei raccolti mondiali cresce solo grazie a irrigazione artificiale, spesso in aree dove le risorse idriche non bastano a rinnovarsi.

In India, Pakistan, California o Spagna, l’acqua pompata per nutrire le colture scende più in fretta di quanto la pioggia possa restituirla. “Stiamo svuotando le falde come conti in banca”, avverte la FAO.
Il risultato? Falda in esaurimento, desertificazione, conflitti tra agricoltori e comunità locali.

In Italia, l’agricoltura assorbe oltre il 60% dei prelievi d’acqua dolce. Le regioni più assetate sono Lombardia, Emilia-Romagna, Puglia e Sicilia.
Le colture più idrovore: mais, riso, pomodoro da industria e agrumi.
E mentre l’acqua scorre nei canali, fino al 40% si perde per inefficienze e dispersioni: un fiume invisibile che evapora nel nulla.

L’acqua industriale: il lato nascosto della produzione

Se l’agricoltura “beve”, l’industria “sciacqua”.
Dalle centrali termoelettriche alle acciaierie, dai coloranti per la moda alla carta, il settore manifatturiero consuma circa un quinto dell’acqua mondiale.

Un solo impianto a carbone o nucleare può usare miliardi di litri l’anno per raffreddare le turbine.
Per ogni tonnellata di acciaio servono fino a 200.000 litri d’acqua; per un chilo di cotone lavorato, 10.000 litri.

In Italia, secondo ISPRA e ARERA, quasi la metà dei prelievi industriali serve a produrre energia elettrica. Seguono i comparti chimico, siderurgico e alimentare.
Grandi nomi come Coca-Cola, Nestlé, Ferrero o i colossi della moda sono tra i maggiori consumatori — e spesso anche tra i più criticati.

L’acqua invisibile dietro i marchi globali

Ogni giorno beviamo, mangiamo e indossiamo acqua — anche se non la vediamo. Non parliamo dei bicchieri che scorrono dai rubinetti, ma dei miliardi di litri che servono per produrre ciò che riempie le nostre dispense e i nostri armadi. Dietro i loghi di giganti come Coca-Cola, Nestlé, Ferrero o i colossi della moda globale, scorre un fiume nascosto di risorse idriche che attraversa il pianeta e alimenta un sistema spesso insostenibile.

Coca-Cola

Nel corso degli anni, Coca-Cola è diventata il simbolo non solo della globalizzazione, ma anche della sete industriale. Ogni litro di bibita richiede in media quasi tre litri d’acqua per essere prodotto, anche se l’azienda dichiara di aver ridotto i consumi a circa 1,9:1. Numeri comunque imponenti, soprattutto se moltiplicati per i miliardi di bottiglie che escono ogni anno dagli stabilimenti.

In diverse regioni — dall’India al Messico — le comunità locali accusano la multinazionale di prosciugare le falde acquifere. Coca-Cola risponde con progetti di “water replenishment”, impegnandosi a restituire alla natura un volume d’acqua equivalente a quello utilizzato. Ma per molti ambientalisti, è una soluzione parziale a un problema strutturale.

Nestlé

Dalle barrette di cioccolato alle bottiglie di S. Pellegrino, Nestlé è uno dei maggiori consumatori d’acqua al mondo. Il gruppo svizzero, che controlla decine di marchi di acqua in bottiglia, è spesso finito nel mirino per il prelievo di sorgenti naturali in aree colpite da siccità — come in California o in Canada — dove le comunità locali lottano per un bene che l’azienda imbottiglia e rivende.

Ma la vera impronta idrica di Nestlé va ben oltre l’acqua minerale. I suoi prodotti più redditizi — caffè, latte, cacao — sono tra i più idrovori in assoluto: per produrre un solo chilogrammo di cacao servono fino a 20.000 litri d’acqua. È il paradosso dell’industria alimentare globale: in un mondo dove un bambino su tre non ha accesso all’acqua potabile, la dolcezza del cioccolato pesa come una diga invisibile.

Ferrero

Più discreta ma non meno impattante, Ferrero è un altro nome che porta con sé un’impronta idrica significativa. Dietro la Nutella — icona del made in Italy — si nasconde un dato eloquente: 4.000–5.000 litri d’acqua per un solo chilogrammo di nocciole, ingrediente chiave della crema più famosa al mondo.

L’azienda di Alba, negli ultimi anni, ha avviato programmi di sostenibilità agricola e di riduzione dei consumi nei processi industriali. Ma le sfide restano aperte, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle coltivazioni in Turchia e in Italia, dove la pressione sulle risorse idriche cresce insieme alla domanda mondiale.

Moda e fast fashion

Il settore tessile è forse il più insospettabile — e al tempo stesso il più devastante. La moda globale consuma acqua in quantità impressionanti: servono circa 10.000 litri per produrre un paio di jeans, e 2.700 litri per una semplice T-shirt in cotone. A ciò si aggiunge la contaminazione dei corsi d’acqua dovuta ai coloranti e ai processi chimici, un fenomeno che colpisce duramente i fiumi dell’Asia meridionale.

Nonostante le campagne di “fashion sustainability” e i progetti di riciclo, l’industria continua a poggiare su una filiera idrovora che si nutre della sete dei Paesi produttori. In molti casi, la sostenibilità rimane più una questione di immagine che di sostanza.

Rubinetti a secco

E noi cittadini? In apparenza, solo comparse in questa storia.
L’uso domestico pesa appena per il 10% del consumo globale. Ma in Italia — un Paese che si crede “ricco d’acqua” — siamo tra i più spreconi d’Europa: 215 litri al giorno per persona, contro una media UE di 125.

Il vero scandalo, però, è altrove: il 42% dell’acqua immessa nelle reti urbane italiane si perde prima ancora di arrivare ai rubinetti (dati ISPRA 2024).
Una rete vecchia, fragile, che trasforma ogni goccia in un miraggio.

Il nuovo colosso assetato: l’acqua digitale

C’è infine un settore in piena crescita, quasi assente nel dibattito pubblico: l’industria digitale.
I data center — il cuore pulsante del cloud e dell’intelligenza artificiale — consumano volumi d’acqua paragonabili a quelli di intere città.
Un singolo centro di grandi dimensioni può usare oltre un miliardo di litri d’acqua all’anno per il raffreddamento dei server.

Nel 2023, Google è finita sotto accusa per il suo impianto di The Dalles (Oregon), dove le comunità locali subivano razionamenti mentre i server continuavano a girare.
Con l’espansione dell’AI, il fenomeno è destinato a esplodere.

Fivedabliu.it

Redazione del quotidiano digitale di libera informazione, cronaca e notizie in diretta

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