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Trump alla Knesset: tra messianismo e silenzi

Il discorso del Presidente americano alla Knesset: Star and stripes e Trump forever

Tempo di lettura 3 minuti

 “Questa è l’alba storica di un nuovo Medio Oriente.”

“Dopo tanti anni di guerra incessante e di pericoli senza fine, oggi i cieli sono sereni, le armi tacciono, le sirene sono silenziose e il sole sorge su una terra sacra che finalmente conosce la pace.”

“Questa lunga e difficile guerra è ora finita.”

“Israele, con il nostro aiuto, ha ottenuto tutto ciò che poteva attraverso la forza delle armi. Avete vinto.”

“Ora è il momento di trasformare queste vittorie contro i terroristi sul campo di battaglia nel premio più grande: la pace e la prosperità per tutto il Medio Oriente.”

Voglio ringraziare una persona senza la quale tutto questo non sarebbe avvenuto. Grazie mille, Bibi, hai fatto un lavoro magnifico.

Abbiamo molte armi e ne abbiamo fornito molte a Israele, a dire il vero. Le avete usate bene

“Sono con voi fino in fondo… e amo Israele… Sarete più grandi, migliori, più forti e più amorevoli che mai. Grazie di cuore. Dio vi benedica, Dio benedica gli Stati Uniti d’America e Dio benedica il Medio Oriente.”

Qui uno stralcio più ampio del discorso di Trump alla Knesset

L’intervento di Donald J. Trump alla Knesset è stato accolto come un discorso storico: una celebrazione della pace, del ritorno degli ostaggi e della “fine delle guerre”. Tuttavia, al di là della retorica trionfalistica, emerge un fatto inquietante: non c’è stata alcuna menzione delle decine di migliaia di morti a Gaza, né delle devastazioni materiali e umane subite dai civili.

Un discorso costruito sul leader

Trump ha presentato se stesso come il protagonista assoluto della pace in Medio Oriente. Ogni evento, ogni vittoria viene ricondotto al suo ruolo salvifico: “Senza di me non sarebbe accaduto”. Il linguaggio è epico e teatrale, scandito da immagini di luce, rinascita e redenzione, con un ritmo ipnotico che più che informare mira a emozionare e impressionare.

Dal punto di vista psicologico, il discorso riflette un chiaro bisogno di centralità e riconoscimento: la pace diventa una performance personale, e la sicurezza collettiva appare subordinata all’immagine del leader.

È proprio qui che emerge la criticità principale. Nonostante la celebrazione della “fine delle guerre” e il ritorno degli ostaggi, Trump non ha mai pronunciato una parola sulle vittime palestinesi, che secondo le stime sono decine di migliaia. Non ci sono riferimenti alla sofferenza dei civili, alle famiglie distrutte o alla ricostruzione necessaria nella Striscia di Gaza.

In un contesto di crisi umanitaria così grave, questo silenzio non è neutrale: segnala una narrazione fortemente centrata sull’immagine personale del leader e sugli interessi israeliani, trascurando le sofferenze dell’altra parte del conflitto.

Tra spettacolo e retorica

Il discorso è costruito come una performance emotiva: ripetizioni enfatiche, metafore luminose e immagini poetiche creano un effetto quasi liturgico. Ma dietro la teatralità si nasconde un messaggio parziale, che enfatizza la vittoria e la redenzione senza riconoscere il costo umano totale della guerra.

Questo approccio rafforza il carisma di Trump come “presidente-guaritore” agli occhi di Israele, ma rischia di alienare chi cerca un discorso di pace completo e inclusivo, che consideri tutte le vittime e tutte le sofferenze.

Il discorso resterà nella memoria come una celebrazione del ruolo centrale di Trump e del trionfo politico israeliano. Tuttavia, l’assenza di qualsiasi riferimento alle vittime palestinesi solleva dubbi sulla sua capacità di presentare una visione equilibrata della pace.

Per i sostenitori, un momento di speranza e liberazione; per i critici, un’occasione mancata per parlare di giustizia e umanità. In definitiva, un discorso che unisce spettacolo, emozione e messianismo, ma lascia un vuoto inquietante là dove la sofferenza umana avrebbe richiesto parola e responsabilità.

Fivedabliu.it

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