Gaza il giorno dopo: tregua fragile tra diplomazia, interessi e incertezze
«È fondamentale che tutte le parti prendano misure concrete nei prossimi giorni per evitare un’escalation e calmare le tensioni. L’escalation non è nell’interesse di nessuno», ha avvertito Antony Blinken, segretario di Stato degli Stati Uniti, durante la conferenza stampa a Washington. Parole che suonano tanto come monito quanto come riconoscimento della precarietà della tregua: il silenzio delle armi non cancella le ombre della politica, né lenisce le profonde divisioni interne che attraversano Israele e Gaza
L’accordo di cessate il fuoco, firmato il 9 ottobre 2025 a Sharm el-Sheikh, segna formalmente la fine di due anni di conflitto. Il presidente statunitense Donald Trump ha definito l’intesa la “prima fase” del suo piano per una pace duratura in Medio Oriente, sottolineando che «la guerra è finita». Dal canto suo, Khalil Al-Hayya, leader di Hamas a Gaza, ha confermato che l’accordo prevede garanzie degli Stati Uniti, dei mediatori arabi e della Turchia per porre fine definitiva alle ostilità. Il cessate il fuoco entrerà in vigore entro 24 ore dalla ratifica da parte del governo israeliano.
Uno degli aspetti più delicati dell’intesa riguarda lo scambio di prigionieri. Entro 72 ore dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, Hamas libererà gli ostaggi israeliani: attualmente, si stima che 20 dei 48 detenuti siano ancora vivi. In parallelo, Israele rilascerà 1.950 prigionieri palestinesi, tra cui 250 ergastolani e altri 1.700 arrestati dall’inizio della guerra, secondo quanto riportato da fonti ANSA. Lo scambio è stato concordato anche con le fazioni palestinesi per garantire il rispetto dell’intesa.
Sul fronte umanitario, l’accordo prevede la riapertura del valico di Rafah con l’Egitto, consentendo l’ingresso regolare di aiuti per una popolazione provata da mesi di bombardamenti e carenza di beni essenziali.
Eppure, nonostante la firma ufficiale e la promessa di una tregua duratura, permangono sfide enormi. La governance futura di Gaza resta un nodo irrisolto: chi guiderà la Striscia? Come sarà gestito il disarmo di Hamas? E chi si assumerà la responsabilità della ricostruzione di un territorio devastato, dove infrastrutture, ospedali e scuole giacciono in macerie? La tregua, pur necessaria, è solo il primo passo in un percorso ancora irto di incertezze e tensioni.
Un governo tecnico fragile: il Board of Peace
Dietro le dichiarazioni ufficiali, si muove un progetto di transizione ancora indefinito: la creazione di un “Board of Peace”, un organismo ibrido composto da tecnici palestinesi, funzionari delle Nazioni Unite e rappresentanti di alcuni Paesi arabi moderati. Un’amministrazione d’emergenza concepita per gestire gli aiuti, garantire un minimo di ordine e avviare la ricostruzione.
In teoria, un ponte verso la stabilità; in pratica, un esperimento politico fragile, potenzialmente osteggiato da più fronti.
Chi sceglierà i membri di questo consiglio? A chi risponderanno? E soprattutto, quale legittimità avranno di fronte a una popolazione che da anni alterna rassegnazione e diffidenza verso qualunque forma di potere imposto dall’esterno? Molti analisti parlano di un “governo tecnico senza popolo”, funzionale alla diplomazia internazionale ma privo di radicamento sociale.
Tuttavia, in mancanza di alternative credibili, le potenze regionali sembrano pronte a sostenerlo come male necessario.
Le tensioni interne in Israele
Ma non è solo Gaza a tremare. Anche in Israele, la tregua apre una faglia politica interna. La destra ultranazionalista accusa il governo di “capitolazione mascherata”: il rilascio di migliaia di detenuti palestinesi e il ritiro parziale dalle aree occupate sono percepiti come una resa morale, un segnale di debolezza dopo mesi di guerra dichiarata fino “all’eliminazione totale di Hamas”.
Dietro le quinte, si consumano scontri tra l’ala militare, favorevole a consolidare la tregua e alleggerire la pressione internazionale, e l’ala ideologica, convinta che la campagna militare non possa essere vanificata senza conseguenze politiche.
Le divisioni attraversano anche l’opinione pubblica: una parte chiede il ritorno immediato degli ostaggi e una tregua stabile; un’altra invoca la prosecuzione dell’offensiva “fino alla vittoria finale”. Per il primo ministro, la tregua rischia così di diventare un boomerang politico, con accuse di indecisione da destra e di insensibilità umanitaria da sinistra.
Il ruolo di Washington e la scommessa Trump
La diplomazia americana ha giocato un ruolo centrale nella mediazione della tregua. Per Donald Trump, l’accordo rappresenta una scommessa enorme: potrebbe passare alla storia come l’artefice di una pace storica o come l’ennesimo presidente travolto dall’instabilità mediorientale.
Molti analisti ricordano che le “fasi due e tre” del piano — il disarmo di Hamas e la creazione di un governo civile a Gaza sotto supervisione internazionale — sono le più delicate. Se una sola promessa sarà tradita, la fragile architettura costruita in pochi giorni di negoziato potrebbe crollare. Il precedente di Netanyahu, che aveva infranto un pacchetto simile l’anno scorso, rende la situazione più fragile.
Oggi le tensioni sono più alte: Gaza è devastata, migliaia di vite sono state distrutte e Israele appare più isolato che mai.
Gli Stati Uniti spingono per una stabilizzazione rapida, consapevoli che il rischio di una nuova escalation potrebbe travolgere l’intera regione. La Casa Bianca punta a mostrare che la pressione diplomatica può funzionare, ma deve bilanciare la necessità di sicurezza di Israele con la crescente attenzione dell’opinione pubblica internazionale verso i diritti umani e la ricostruzione civile.
Qatar e Turchia: mediatori e protagonisti simbolici
Qatar e Turchia si giocano il ruolo di protagonisti nel nuovo equilibrio di Gaza. Il Qatar, grazie ai suoi contatti diretti con Hamas e alla capacità di supervisionare flussi finanziari, appare come garante di una parte della tregua e della stabilizzazione interna.
Allo stesso tempo, cerca di rafforzare la propria posizione politica nella Striscia, diventando un interlocutore imprescindibile per la diplomazia internazionale.
La Turchia, pur condannando pubblicamente Israele, punta a trasformare la ricostruzione economica in leva geopolitica, consolidando la propria presenza simbolica e culturale nella regione. Ankara potrebbe diventare un attore centrale nell’infrastrutturazione dei servizi civili, creando dipendenza economica e aumentando la propria influenza diplomatica.
Questa dualità, tra mediazione e competizione, rende la situazione di Gaza ancora più complessa: gli interessi dei due Paesi non coincidono sempre e la cooperazione con Washington, Egitto e ONU potrebbe oscillare tra sinergia e attrito.
Gaza e la governance fragile
Sul terreno, la tregua appare una linea tracciata nella sabbia. Nelle aree non restituite, l’esercito israeliano manterrà una presenza “di sicurezza”, che potrebbe trasformarsi, nei fatti, in una nuova occupazione parziale. Ogni pattugliamento o controllo di convoglio umanitario rischia di diventare una miccia.
Anche all’interno di Gaza, la società resta frammentata. Senza un’autorità riconosciuta, le reti di potere locali — clan, milizie, intermediari — rischiano di riemergere con forza. Le ONG internazionali denunciano il pericolo di un “mercato parallelo” degli aiuti, dove risorse destinate ai civili vengono filtrate da gruppi armati o élite economiche locali. In assenza di una struttura politica stabile, ogni tentativo di ricostruzione rischia di trasformarsi in una nuova forma di controllo, più economico che militare.
Il confine di Rafah, parzialmente riaperto per gli aiuti, resta un nodo politico: chi controllerà il flusso, Israele o Egitto? E quale ruolo avranno le forze internazionali? La tregua rischia così di spostare la guerra dai cieli alle dogane, dai bombardamenti alle tensioni logistiche.
Un Medio Oriente da ricostruire
La guerra di Gaza non ha solo distrutto un territorio: ha ridisegnato gli equilibri della regione, estendendosi a Libano, Yemen e Iran e provocando un’ondata di proteste contro i governi arabi accusati di immobilismo.
Oggi quei leader tirano un sospiro di sollievo, ma sanno che la pace non sarà gratuita: bisognerà decidere chi garantirà la sicurezza di Gaza e chi pagherà la ricostruzione, che richiederà decenni.
Dubbi, perplessità e prospettive future
Il futuro di Gaza resta avvolto nell’incertezza. Il Board of Peace potrebbe funzionare come ponte verso la stabilità minima, ma è altrettanto possibile che si trasformi in un organismo fragile, incapace di imporsi sul terreno, percepito dalla popolazione come una struttura imposta dall’esterno. Il disarmo di Hamas resta la sfida più delicata: se i gruppi armati locali non accetteranno di consegnare le armi, la tregua rischia di diventare una semplice pausa, lasciando intatto il rischio di conflitto.
In Israele, la tregua non ha spento le divisioni interne. La destra radicale potrebbe spingere per nuove operazioni militari in aree non restituite, mentre l’ala moderata cerca di consolidare la tregua per non compromettere il consenso internazionale.
Il rischio è che un solo incidente, un attacco isolato o un errore nella gestione dei valichi, possa scatenare nuovamente violenza e aprire una crisi politica interna difficile da gestire.
Il ruolo di Qatar e Turchia
Qatar e Turchia diventano attori chiave: il Qatar mantiene i contatti con Hamas e supervisiona flussi finanziari essenziali, mentre la Turchia mira a consolidare la propria influenza simbolica ed economica nella futura ricostruzione.
Ma questa concorrenza internazionale aggiunge ulteriore complessità: i mediatori potrebbero trovarsi in conflitto tra loro, complicando ogni tentativo di governance condivisa e di stabilizzazione.
Nei prossimi mesi, la tregua potrebbe tradursi in diversi scenari intrecciati. Un esito positivo vedrebbe il Board of Peace acquisire legittimità, il disarmo parziale di Hamas e una ricostruzione controllata e progressiva, con la tregua che regge.
Ma scenari intermedi prevedono che il governo tecnico sia osteggiato da milizie locali, provocando tensioni interne, episodi di violenza nei valichi e un processo di ricostruzione frammentario, dove Qatar e Turchia aumentano la loro influenza a scapito di un equilibrio più neutrale. Nel peggiore dei casi, la tregua fallirebbe, Hamas manterrebbe il controllo armato su settori chiave e Israele sarebbe costretto a nuove offensive, con il rischio di escalation regionale e crisi interna, mentre la Striscia tornerebbe rapidamente a essere teatro di conflitto aperto.
Le sfide politiche per Netanyahu
Sul piano interno, il primo ministro Benjamin Netanyahu si trova a fronteggiare pressioni crescenti. Il suo governo di destra è diviso: alcuni ministri, come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, si oppongono fermamente a qualsiasi accordo che consenta a Hamas di rimanere attivo, anche in forma ridotta. Questa frattura potrebbe portare a elezioni anticipate e mettere a rischio la stabilità del governo.
Inoltre, l’ex capo del Mossad, Yossi Cohen, ha recentemente dichiarato di essere pronto a entrare in politica per guidare Israele verso un futuro più unito e professionale. Criticando la leadership di Netanyahu, Cohen ha suggerito che il paese necessita di un cambiamento, enfatizzando la necessità di una politica più pragmatica e inclusiva.
Le elezioni in Israele sono previste per ottobre 2026, a meno che non vengano anticipate a causa di instabilità politica o altre circostanze straordinarie. La crescente opposizione interna e le critiche esterne suggeriscono che Netanyahu potrebbe affrontare sfide significative nel mantenere la sua posizione.
La tregua e la memoria della guerra
Potrebbero bastare le cifre a riassumere la drammaticità di quanto accaduto: 1.200 israeliani morti e 250 presi in ostaggio nel giorno in cui è cominciata la guerra, 800 soldati israeliani uccisi e 20.000 feriti, 66.000 palestinesi uccisi, di cui 20.000 bambini e 150.000 feriti, 2 milioni di palestinesi sfollati, l’80% degli edifici distrutti o danneggiati.
Numeri che raccontano una tragedia che nessuna tregua potrà cancellare. Il cessate il fuoco può fermare le bombe, ma non cancella la memoria delle vittime, né la paura dei sopravvissuti, né le ferite politiche e sociali che continueranno a plasmare la regione. La pace resta una parentesi fragile, e chiunque speri che la tregua basti a chiudere i conti con la guerra rischia di sottovalutare la profondità del conflitto e la complessità di una riconciliazione ancora tutta da costruire.
E ora, mentre governi e attori internazionali si affrettano a ritagliarsi un ruolo nella ricostruzione di Gaza, emerge una profonda ipocrisia: ricostruiranno su un tappeto di cadaveri. Dopo mesi di bombardamenti e massacri che nessuna autorità ha voluto fermare, il prezzo umano è talmente alto da rendere ogni progetto di pace e ricostruzione intrinsecamente fragile, sospeso tra pragmatismo politico, convenienze diplomatiche e responsabilità morale. La ricostruzione, per quanto necessaria, sarà dunque un atto di gestione di una tragedia epocale, e non un colpo di spugna.