Trump e il petrolio del Venezuela: potere, sanzioni e tanta arroganza
Dalla Casa Bianca arrivano parole di fuoco: “I giorni di Maduro sono contati”. Ma dietro la retorica di Trump si muove un disegno più complesso, dove l’energia vale quanto la geopolitica.
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Donald Trump si comporta da bullo anche in politica estera. Alza la voce, minaccia, sposta navi e truppe, poi arretra e si prende il merito di aver “portato la pace”. È una sceneggiatura già vista: accadrà così anche con Nicolás Maduro. Non ci sarà nessuna guerra aperta contro il Venezuela, nessuna invasione, nessun “regime change” spettacolare. Quando i toni si abbasseranno, il presidente americano potrà dichiarare di aver evitato un conflitto e di aver riportato la stabilità in un Paese “liberato” dall’influenza dei cartelli e delle potenze ostili. Ma al netto delle simpatie o delle condanne verso Maduro, la realtà è fin troppo semplice da leggere: a Trump interessa soltanto il petrolio.
Negli ultimi mesi, il Venezuela è tornato al centro della scena geopolitica mondiale. Le immense riserve petrolifere del Paese — le più grandi al mondo — sono di nuovo oggetto di attenzione da parte di Washington. Dietro la retorica della “lotta al narcotraffico” e del “ripristino della democrazia”, la Casa Bianca guidata da Donald Trump sembra perseguire un obiettivo strategico preciso: riconquistare un ruolo diretto nella gestione delle risorse energetiche venezuelane.
Il contesto geopolitico
La crisi venezuelana, esplosa ormai più di un decennio fa, è diventata un laboratorio di scontro tra potenze globali. Da un lato, gli Stati Uniti e i loro alleati cercano di isolare il governo di Nicolás Maduro, imponendo sanzioni e limitando l’accesso del Paese ai mercati internazionali; dall’altro, Russia, Cina e Iran sostengono Caracas fornendo tecnologia, credito e assistenza militare.
Nel mezzo, il petrolio: una risorsa che vale più dell’oro, e che continua a muovere decisioni politiche, alleanze e interventi indiretti. L’attenzione americana verso il Venezuela non è soltanto una questione ideologica, ma una mossa energetica. Con le crisi globali e la volatilità del mercato, Washington sa che il controllo (o almeno l’influenza) sulle risorse venezuelane può rappresentare una leva cruciale per contenere la pressione dei produttori asiatici e del Golfo.
Il ruolo delle compagnie (il caso Chevron)
Nel rapporto complesso tra Stati Uniti e Venezuela, le grandi compagnie petrolifere internazionali, e in particolare Chevron, rappresentano il punto d’incontro tra la politica e il mercato dell’energia. Non si tratta soltanto di imprese che operano in base a logiche economiche: sono, di fatto, strumenti della diplomazia energetica americana.
Dopo anni di sanzioni che avevano paralizzato quasi ogni collaborazione con la compagnia statale venezuelana PDVSA, Washington ha concesso a Chevron una licenza speciale per continuare a lavorare nel Paese.
Questa autorizzazione, concessa con molte limitazioni, è diventata un vero e proprio barometro della politica estera statunitense nei confronti di Caracas: è stata revocata, prorogata e rinegoziata più volte, in funzione del contesto politico e delle pressioni diplomatiche del momento.
Ogni rinnovo della licenza è accompagnato da condizioni rigide, che mirano a ridurre al minimo i benefici economici per il governo di Nicolás Maduro.
Chevron può estrarre e commerciare petrolio venezuelano, ma è tenuta a farlo in modo da non generare nuove entrate dirette per lo Stato. I proventi vengono in larga parte destinati al pagamento di debiti pregressi o a coprire i costi operativi, senza che vi sia un flusso di denaro che possa rafforzare le casse pubbliche. In questo modo, la compagnia americana mantiene una presenza industriale strategica in un’area ricca di risorse, mentre Washington continua a esercitare un controllo indiretto sul settore energetico del Paese.
Il risultato è una contrazione significativa delle entrate del governo venezuelano, che si traduce in una crescente difficoltà nel finanziare servizi, infrastrutture e apparati di potere. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti evitano che le loro imprese perdano completamente il contatto con uno dei più grandi giacimenti petroliferi del mondo. È un equilibrio sottile, che unisce pressione economica e tutela degli interessi industriali.
Come hanno osservato analisti del Houston Chronicle e del Financial Times, si tratta di una forma di “sanzione gestita”: una politica che non mira a distruggere l’industria petrolifera venezuelana, ma a controllarla dall’interno, mantenendola in vita quel tanto che basta per non lasciarla nelle mani di altri attori internazionali, come la Russia o la Cina. In questo schema, Chevron diventa una pedina diplomatica, un modo per gli Stati Uniti di restare presenti sul campo mentre continuano a isolare politicamente il regime di Maduro.
Trump e Maduro, nuova escalation
La tensione tra Washington e Caracas torna a salire. Donald Trump, in un’intervista a CBS, ha dichiarato che “i giorni di Nicolás Maduro sono contati”, lasciando intendere che la Casa Bianca non esclude un cambio di regime in Venezuela, pur negando apertamente un’imminente azione militare. “Non credo che entreremo in guerra con il Venezuela”, ha detto il presidente, ma alla domanda se Maduro sia vicino alla fine del suo mandato, ha risposto senza esitazione: “Direi di sì”.
Le parole del tycoon arrivano mentre gli Stati Uniti continuano a concentrare forze e mezzi nei Caraibi, ufficialmente per contrastare il narcotraffico. Un’operazione che, tuttavia, molti analisti interpretano come un segnale di pressione politica. Caracas, dal canto suo, ha reagito denunciando la violazione del proprio spazio aereo da parte di due velivoli “legati al narcotraffico”, che secondo il governo sarebbero stati abbattuti dalle forze armate venezuelane.
“Non vogliamo una guerra — ha affermato Maduro nel suo programma televisivo Con Maduro+ — ma difenderemo la nostra sovranità. Nessuno ci toglierà la nostra democrazia”.
La risposta del presidente venezuelano ha toni di sfida, ma anche di propaganda interna. In un video diffuso su Telegram, ha rivendicato la “maturità politica e patriottica del popolo venezuelano”, descrivendo il Paese come una democrazia avanzata sotto assedio. Di segno opposto le parole della leader dell’opposizione María Corina Machado, recentemente insignita del Premio Nobel per la Pace, che in un’intervista a Fox News ha espresso pieno sostegno alla linea dura di Trump.
“Il popolo venezuelano appoggia le azioni del presidente americano — ha dichiarato — perché da ventisei anni lottiamo per liberarci da un regime che ha distrutto il Paese”.
L’Unione Europea, come al solito reagisce con cautela, invitando gli Stati Uniti al rispetto del diritto internazionale. Annuncia anche un nuovo pacchetto di aiuti umanitari da 14,5 milioni di euro destinato al Venezuela. Ma la posizione di Bruxelles non sembra in grado di rallentare l’escalation. Fonti del Dipartimento di Giustizia americano hanno confermato che l’amministrazione Trump può proseguire i raid contro presunti narcotrafficanti in America Latina senza bisogno di un nuovo via libera del Congresso, una decisione che alimenta il sospetto di una strategia d’intervento più ampia.
In questo clima di tensione crescente, le parole di Trump appaiono come l’ennesimo tassello di una partita che intreccia politica, energia e controllo delle rotte del petrolio.