Punti di Vista

Un mondo senza copione: la geopolitica del disordine

Guerre, crisi energetiche e rivoluzioni tecnologiche hanno incrinato l’ordine nato dopo la Guerra Fredda. Le potenze si confrontano senza regole stabili, in un equilibrio mondiale sempre più precario.

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Viviamo in un mondo che sembra aver smarrito la sceneggiatura. Le certezze ideologiche, le alleanze politiche e persino le regole non scritte che per decenni avevano garantito un fragile equilibrio internazionale stanno cedendo una dopo l’altra. L’ordine globale nato dopo la Guerra Fredda si sta sgretolando sotto i colpi incrociati di guerre, crisi energetiche, rivoluzioni tecnologiche e disinformazione. È un mondo senza copione, dove domina l’improvvisazione, e la violenza — fisica, economica e simbolica — è tornata a essere linguaggio politico.

Il tramonto dell’ordine americano

Per oltre trent’anni l’egemonia statunitense ha rappresentato il perno del sistema internazionale. Ma oggi, quella centralità è erosa da una crescente multipolarità. Potenze come India, Cina e Turchia si muovono in modo autonomo, spesso in aperta competizione con Washington. L’India persegue una strategia di “multi-allineamento”: collabora con gli Stati Uniti in campo tecnologico, ma mantiene rapporti economici con la Russia e commerciali con la Cina. Pechino, dal canto suo, promuove un modello alternativo di governance globale, investendo in infrastrutture strategiche attraverso la Belt and Road Initiative e rafforzando il proprio ruolo nel Sud globale, come si è visto nel recente summit dei BRICS allargato.

L’illusione di un mondo governato da regole condivise è evaporata. Al suo posto emerge un mosaico di stati in competizione, dove ogni crisi regionale rischia di diventare detonatore di instabilità globale. Le guerre commerciali, i conflitti per le risorse, la corsa alle materie prime critiche e alle tecnologie d’avanguardia compongono un quadro di rivalità permanente. La geopolitica è tornata, ma con regole più dure e meno prevedibili.

La guerra come orizzonte permanente

Nel cuore di questo disordine, il Medio Oriente continua a essere l’epicentro del terremoto geopolitico. Il 7 ottobre 2023, l’attacco di Hamas a Israele ha segnato un punto di non ritorno. La risposta israeliana su Gaza ha ridisegnato gli equilibri regionali, spegnendo le speranze di distensione e rimettendo al centro del dibattito la questione palestinese, che gli Accordi di Abramo avevano temporaneamente oscurato.

L’instabilità si è estesa a cerchi concentrici: il Libano, colpito duramente dai raid israeliani tra il 2024 e il 2025; la Siria, uscita devastata dalla caduta di Bashar al-Assad; e infine l’Iran, trascinato in una guerra diretta con Israele — la cosiddetta “guerra dei dodici giorni” — che ha ridefinito i rapporti di forza nella regione. Israele ha dimostrato la propria superiorità tecnologica, ma non è riuscito a ottenere una deterrenza duratura.
L’Iran, pur colpito duramente, ha resistito politicamente, alimentando un discorso di “resistenza nazionale” che gli ha permesso di sopravvivere. Il conflitto ha però segnato la fine dell’“Asse della Resistenza”: Hezbollah indebolito in Libano, le milizie filo-iraniane isolate in Iraq, gli Houthi costretti alla difensiva in Yemen.
La conseguenza più pericolosa è la possibile corsa al nucleare in Medio Oriente: a Teheran, settori radicali del regime chiedono apertamente lo sviluppo di un’arma atomica come deterrente, mentre Arabia Saudita e Turchia valutano programmi propri, in un effetto domino che potrebbe rimettere in discussione la sicurezza globale.

Suez, Houthi e la guerra dei commerci

Il conflitto di Gaza ha avuto ripercussioni ben oltre la regione. Gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, in risposta all’offensiva israeliana, hanno colpito al cuore il commercio mondiale. Il Canale di Suez — da cui transita tra il 12 e il 15% del traffico marittimo globale — è diventato vulnerabile come non lo era dal 1956. Nel 2024 i ricavi egiziani derivanti dal passaggio delle navi sono crollati di oltre due terzi, causando una perdita stimata di 8 miliardi di dollari. Le rotte deviate verso il Capo di Buona Speranza hanno allungato i tempi di trasporto, aumentato i costi e alimentato una nuova ondata inflazionistica in Europa e negli Stati Uniti.

Il Mar Rosso è tornato così ad essere una linea di frattura strategica. Controllare Suez significa controllare il flusso dell’energia, delle merci e delle catene di approvvigionamento globali. Non a caso, Cina e Russia stanno consolidando la loro presenza nei porti africani e mediorientali, mentre gli Stati Uniti tentano di mantenere la supremazia militare nella regione. L’Egitto, stretto tra la crisi economica e le pressioni internazionali, gioca un ruolo cruciale ma precario, sospeso tra alleanza con Washington e apertura a Pechino.

Il Mediterraneo allargato: nuovo cuore del mondo

La crisi del Mar Rosso e la guerra di Gaza hanno trasformato il Mediterraneo in un vero e proprio laboratorio del mondo multipolare. È qui che si intrecciano le rotte energetiche, digitali e commerciali che collegano Europa, Africa e Asia. Il concetto di “Mediterraneo allargato” oggi comprende il Nord Africa, il Levante, il Golfo Persico e perfino il Sahel: un’area che va dal Marocco al Mar Rosso, e che rappresenta il nuovo spazio conteso tra potenze globali e regionali.

Cinque sono gli assi strategici che ridisegnano quest’area: l’energia, le infrastrutture, la tecnologia, la sicurezza e la cultura.
Sul piano energetico, il Mediterraneo è tornato centrale grazie alle forniture di gas da Algeria, Libia ed Egitto, alternative parziali alla dipendenza dal gas russo. Ma la transizione verso le rinnovabili aggiunge un nuovo livello di competizione: la Cina, tramite aziende come Jinko Solar e China Energy, finanzia mega-progetti solari in Arabia Saudita e negli Emirati, trasformando la regione in un hub della transizione verde.
Sul piano infrastrutturale, il corridoio India–Middle East–Europe (IMEC), promosso dagli Stati Uniti come alternativa alla Via della Seta cinese, punta a collegare l’Asia all’Europa passando per Israele, Arabia Saudita e Grecia. È una nuova “via del commercio” che si sovrappone — e compete — con la Belt and Road Initiative di Pechino.

Ma la vera partita è quella tecnologica. Il controllo dei cavi digitali sottomarini, delle reti 5G e delle infrastrutture di cybersicurezza sta creando un Mediterraneo digitale, dove la connettività è potere. Israele, Emirati e Turchia investono massicciamente nell’intelligenza artificiale e nella difesa informatica, mentre l’Europa tenta di recuperare terreno con progetti di “autonomia strategica” che faticano a tradursi in una politica estera unitaria.

Il Sahel e la nuova frontiera del disordine

A sud del Mediterraneo, il Sahel è diventato un’altra faglia geopolitica. Dalla Libia al Niger, la regione è precipitata in una spirale di colpi di Stato, insorgenze jihadiste e ingerenze straniere. Il ritiro delle truppe francesi e l’arrivo delle forze del gruppo Africa Korps) (ex Wagner) hanno spostato gli equilibri: la Russia, in cambio di concessioni minerarie e influenza politica, offre protezione ai regimi militari che si succedono da Bamako a Niamey.
Il Sahel è oggi un cantiere di instabilità cronica: i traffici di armi, esseri umani e oro alimentano economie parallele che sfuggono a ogni controllo. L’Europa osserva da lontano, preoccupata soprattutto dei flussi migratori, ma senza una strategia comune. Eppure, chi controlla il Sahel controlla la fascia di congiunzione tra Mediterraneo e Africa subsahariana, la futura frontiera energetica e climatica del continente.

L’Europa, potenza economica ma non strategica

La guerra di Gaza e la crisi del Mar Rosso hanno rivelato ancora una volta l’impotenza politica dell’Unione Europea. Divisa tra il sostegno a Israele e la condanna delle sue operazioni militari, l’Europa ha mostrato il limite strutturale di un potere privo di coesione strategica. La Commissione di Ursula von der Leyen, con la sua solidarietà immediata a Tel Aviv, ha spaccato gli Stati membri: Germania e Polonia da un lato, Francia e Spagna dall’altro.
L’UE resta il principale donatore umanitario nella regione, ma senza la capacità di trasformare l’aiuto economico in influenza diplomatica. È la potenza che paga, ma non decide. L’unica carta che può ancora giocare è quella del Mediterraneo: uno spazio dove storia, energia e cultura la rendono un interlocutore naturale. Ma per tornare protagonista servirebbe una visione comune che oggi semplicemente non esiste.

La sfida del futuro: governare il disordine

Dalla guerra dei semiconduttori tra Washington e Pechino alla competizione per le terre rare, dalle crisi migratorie al collasso climatico, tutto indica che l’instabilità non è più una parentesi: è la condizione strutturale del nostro tempo. La globalizzazione, invece di unire, frammenta; la tecnologia, invece di liberare, crea nuove dipendenze. L’intelligenza artificiale promette produttività ma concentra potere; la transizione ecologica rischia di generare nuove disuguaglianze. È il paradosso del XXI secolo: più interconnesso che mai, eppure più diviso, più fragile.

Eppure, la storia insegna che il disordine non è solo distruzione. È anche momento di ridefinizione. Se governi e società sapranno trasformare il caos in spinta innovativa — investendo in cooperazione, sostenibilità e diplomazia — la crisi attuale potrà diventare l’inizio di un nuovo equilibrio. Ma serve tempo, lucidità e volontà politica: tre risorse oggi più scarse del litio e dell’energia.

Nel frattempo, il mondo continuerà a muoversi senza copione, sospeso tra il rischio di implosione e la possibilità di rinascita. Ed è forse proprio in questo limbo instabile che si giocherà la partita decisiva del nostro futuro.


Fivedabliu.it

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