Più soldi per gli armamenti. Ma il nemico chi è?
DPP 2025. Il Governo punta a raggiungere la soglia del 2% del Pil per la spesa militare, come richiesto dalla Nato. Un obiettivo che vale miliardi e promette sicurezza, anche in comode rate
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Nel Documento Programmatico di Finanza Pubblica 2025-2027, il Governo italiano mette per la prima volta la difesa nazionale tra le priorità strutturali del bilancio pubblico.
L’obiettivo è chiaro: portare la spesa militare al 2 per cento del Pil, la soglia fissata dall’Alleanza Atlantica per tutti i Paesi membri. Oggi l’Italia è ferma intorno all’1,5 per cento. Arrivare al 2 significa investire circa dieci miliardi di euro in più nei prossimi tre anni — un impegno che pochi altri settori della pubblica amministrazione possono sognare.
Il Tesoro definisce questo aumento “compatibile con la sostenibilità del debito pubblico”. Ma la compatibilità è un concetto elastico: con un debito che supera il 134 per cento del Pil e un deficit che deve rimanere sotto il 3, ogni euro in più destinato alle armi dovrà per forza essere sottratto da qualche altra parte.
Il Governo giustifica la scelta con due argomenti. Il primo è politico: l’Italia deve “fare la sua parte” per la sicurezza europea, in un contesto globale segnato da guerre e tensioni. Il secondo è economico: gli investimenti in difesa, dicono i ministri, stimoleranno l’industria nazionale e creeranno posti di lavoro. È la vecchia idea che la spesa militare funzioni come un motore per l’economia.
Ma la realtà, dicono molti economisti, è diversa. Gli studi internazionali mostrano che il cosiddetto “moltiplicatore” della spesa militare è tra i più bassi della spesa pubblica. In altre parole, il riarmo fa girare l’economia, ma la fa girare peggio. E non solo perché il settore è ristretto, ma anche perché una parte rilevante dei fondi finisce all’estero. Radar, motori, tecnologie e componenti elettronici vengono acquistati fuori dai confini nazionali: una spesa che arricchisce più i fornitori stranieri che i lavoratori italiani.
Per aggirare i vincoli di bilancio, l’Italia conta sul fondo europeo SAFE, Security Action for Europe, un nuovo strumento che consente di finanziare progetti militari con prestiti garantiti dall’Unione Europea.
La mossa più importante è tecnica ma cruciale: le spese coperte dal fondo non verranno conteggiate nel deficit nazionale. È una scorciatoia legale che consente di spendere senza “sporcare” i conti, ma che introduce un precedente rischioso. Significa, in sostanza, creare debito nascosto — soldi spesi che non si vedono subito, ma che un giorno dovranno essere restituiti.
Il sogno di una “difesa europea” integrata, inoltre, resta lontano. Ogni Paese prosegue per conto proprio, moltiplicando programmi e spese: l’Italia finanzia il caccia Tempest, la Francia il Rafale, la Germania il sistema FCAS. È la fotografia di un continente che parla di cooperazione ma pratica la concorrenza, aumentando costi e duplicazioni.
La verità, al netto dei tecnicismi, è che l’Italia sta costruendo un nuovo equilibrio di bilancio in cui la spesa militare diventa strutturale. È una scelta politica, non economica, e come tutte le scelte politiche ha un significato morale: dice cosa un Paese considera davvero prioritario.