Bidet, palle ovali, corsi, ricorsi, incubi e ossessioni

Potrei soffermarmi almeno un po’ a montare/fare la ruota, come ogni buon pavone che si rispetti, ma non sono troppo incline all’autocompiacimento, perlomeno non quanto al mio naturale narcisismo egoriferito. Eppero’ ci avevo azzeccato.
La Francia, poi, ha vinto il mondiale, battendo nella finale una Croazia stanca per aver disputato i tempi supplementari in altrettante partite tirate allo spasimo. Con lo stress finale dei calci di rigore, per giunta. E un po’ mi dispiace, da juventino, per quell’indomito “guastatore” e “lottatore” di Marione Mandzukic e per l’impalpabile Marko Pjaka. Meno, molto meno, per gli interisti ed ex interisti, Ivan Perisic, Marcelo Brozovic e Mateo Kovacic. O per quella schiena dritta del milanista Nikola Kalinic allontanato dall’allenatore Zlatko Dalic per essersi rifiutato di entrare in campo adducendo, appunto, il mal di schiena.

Però, con lo stesso ragionamento, non potevo che tifare per la Francia, con Didier Deschamps in panchina e poi Blaise Matuidi, e l’ex fenomeno Paul Pogba. E comunque mi viene da dire che la Francia di Kylian Mbappe e di Antoine Griezmann, giovane fucina di talenti, per la maggior parte di colore, se l’è perfino meritata. Prima di tutto per il percorso. Ha eliminato negli ottavi l’Argentina del principino Lionel Messi, poi l’Uruguay del mitico professor Oscar Tabarez, che ha commosso tutti per la sua stampella e quella forza di volontà che risiede solo nell’intimo degli uomini speciali che fanno dello stile un’arte. Che insegnano a tutti educazione in campo e sanno soffrire senza darlo troppo a vedere. O, peggio, suggerendo commiserazione. E poi in semifinale “Les blues” hanno messo fuori anche i diabolici belgi, sino a quel momento secondi nel ranking mondiale, in omaggio a quella banalità che vuole i francesi sussiegosi e furbi e i belgi un po’ zotici e fessi. Perche’ ognuno alla fine deve avere i suoi meridionali di riferimento per sentirsi importante. Anche se, appena qualche giorno dopo la partita con i Belgi, i francesi avrebbero dato un segno di civiltà cancellando con un colpo di spugna significativo la parola “razza” dalla loro Costituzione. Contraddizione di chi poi blocca i migranti alla frontiera. E magari parla a sproposito, o a ragione, persino di multiculturalità. E, durante la premiazione, quei ragazzi di colore se li abbraccia  a lungo sotto la pioggia torrenziale. Felice per avergli conferito la cittadinanza e, magari in futuro, pure la legion d’onore. Fin qui le ragioni del calciofilo tifoso. Anche se poi quelle del tifoso della politica, fra ragioni e contraddizioni, durante il campionato, e al termine, a premiazione archiviata, finiscono per far capolino. Perché, confessiamocelo tutti, anche in quell’ambito ci ritroviamo comunque per essere sempre un po’ tifosi. Anche se lo sport dalla politica dovrebbe esserne lasciato fuori. Lo sport che fa abbracciare più che dividere. Quello del “vinca il migliore” e de “l’importante è partecipare”. Ma come per l’arte, che dovrebbe essere super partes e dovrebbe andare oltre il tifo, va contestualizzato nel periodo, nel momento storico e addirittura nella terra e nella forma di governo politico della nazione d’origine. Il calcio, come ogni cosa che interessa l’essere umano, non ha compartimenti stagni.

Jesse Owens

Ce lo insegna la storia. A cominciare dall’impresa dell’americano Jesse Owens che con le sue quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino del 1936, costituì a lungo, nell’immaginario collettivo, lo schiaffone in pieno viso al dittatore Adolf Hitler, che da lì a qualche anno avrebbe messo a ferro e fuoco l’Europa e il mondo.
E quindi, questi mondiali, terminati con un encomio a Vladimir Putin, leader del paese ospitante, per le capacità organizzative messe in campo, non potevano che sconfinare nella politica. Con ulteriori credenziali per il sovietico che avrebbe incontrato il presidente degli Stati Uniti Donald Tycoon Trump.

Mi perdoni il popfilosofo Simone Regazzoni, che ho sempre ammirato per il suo andare forsennatamente controcorrente con la sua filosofia erudita, se cito ma dissento su quel suo post: “Già sopporto poco il calcio, ma le letture politiche del calcio non le tollero. Per fortuna i mondiali sono finiti. Credo che tutto sia iniziato all’età di sette anni, quando mi feci regalare un pallone ovale da football americano con cui, naturalmente, giocavo da solo”. Parlava di masse e alle masse e ne parla ancora ora, fustigava i paternalismi dei salotti bene, au caviar, del suo precedente partito di appartenenza, il Pd. Poi si è immerso nel populismo un po’ becero di Matteo Salvini e del suo popolo radunato in riva al Po’, contemplandone e encomiandone il gusto per le narrazioni e le contrapposizioni forti. Che compiacciono la pancia del paese. E poi, al fin della tenzone, se ne tira fuori come un esile esteta qualunque. Con quel riferimento alle palle ovali e alla stupidità del mondo social. Come se lui non lo utilizzasse e lo bazzicasse a piene mani. Già, il bastian contrario attrae sempre un po’ di più del popolo bue. E se poi la sconfitta finisce per distribuire un po’ di sale sulle ferite aperte, meglio portarsi a casa la palla (ovale?) salutare tutti e andarsene in gesto di spregio.

E comunque, Regazzoni a parte, gettandola ancora in politica, questi mondiali hanno segnato la vittoria del globalismo sul sovranismo. Della nazione sussiegosa e potente sulla poco popolosa Croazia. Del popolo che ha la pretesa di non usare il bidet di fronte a quello che ha difeso le proprie radici etniche, vittima e poi padrone del suo destino, rendendosi indipendente dopo una sanguinosa guerra civile. La storia crea ad arte  cortocircuiti che bisogna essere bravi a dipanare e ad interpretare.

Luka Modrić
Luka Modrić

La storia del profugo Luka Modrić, capitano croato, passato in gioventù attraverso il dramma della guerra, se non ci si limitasse al tifo calcistico e politico, potrebbe insegnarci tante cose. Sulla labilita’ dei confini territoriali, sulle guerre di religione, sulle etnie e sulle razze. Sui migranti che scappano dalle bombe, dalla pulizia etnica, dagli eccidi, dalla paura di morire incolpevolmente per le bizze e gli interessi dei potenti.

E poi c’è la storia, regina, che se si avesse la possibilità e la voglia di approfondire e interpretare potrebbe insegnare qualcosa, pur con tutte le sue innumerevoli contraddizioni. Per esempio che il popolo che orgogliosamente rifiuta l’uso del bidet, già dai tempi di Versailles e del re Sole veniva targato come un popolo di puzzoni, con gran dame coperte da ciprie, belletti e merletti, e cortigiani che affievolivano il cattivo odore emanato dal loro corpo umano con lavande e profumi. Oppure che la stessa potente nazione ha fatto eccidi a non finire nelle proprie colonie, in Algeria, per esempio, esportando imperialismo e importando materie prime e, prima ancora, importando tessuti e spezie per le proprie corti. E dall’altra parte ci suggerirebbe il contraltare di una nazione sovranista nella cui squadra militano soprattutto calciatori che giocano in campionati esteri. E che il multiculturalismo di cui si e fregiata dopo aver vinto i campionati del Mondo del 1998 (con Deschamps capitano) e con il pomposo discorso dell’allora presidente della Repubblica Jacques Chirac altro non era che un forzato adeguamento egualitarista ai tempi.

Jacques René Chirac
Jacques Chirac

Già venti anni fa diceva l’allora presidente francese:

Jacques René ChiracOggi, come allora, questa squadra tricolore e multicolore restituisce una bella immagine di una Francia umanista, forte, unita. E comunque al di là della vittoria e della facciata le contraddizioni sopite dalla cenere continuano ad esistere.

Scrive Andrea Costanzo:

discorso di Jacques René ChiracCorsi e ricorsi storici, fra i quali il nostro Matteo Salvini potrebbe ora sguazzare a piacimento. Perché poi fra Isis, attentati e seconde generazioni delle banlieu parigine e delle principali città francesi, tutto si è complicato. Nonostante i saltelli di Macron, la bella e inossidabile moglie bionda al suo fianco, gli abbracci con la perdente Kolinda Grabar Kitarovic, stupenda milf cinquantenne, in maglia a scacchi biancorossi, che ha abbracciato uno a uno prima i suoi giocatori e poi i vincitori, quelli, bianchi e di colore, francesi. Mentre sullo stadio Luzniki, e su tutta Mosca, si scatenava, tra saette e tuoni, il temporale a lungo preannunciato. Con Putin unico protetto da un ombrello, mentre capi di stato, vertici FIFA e giocatori erano bagnati come pulcini. Poi gli ombrelli, a distanza di parecchi minuti, sono finalmente arrivati a preservare, non soltanto l’ex capo del KGB, ma anche le teste coronate.

Emmanuel Macron e Kolinda Grabar Kitarovic
Emmanuel Macron e Kolinda Grabar Kitarovic

E, al di là di questa immagine, quella che vorrei salvare di questi campionati del mondo, e’ proprio la visione della presidente croata bella, bionda e curvy, Kolinda Grabar Kitarovic, che abbraccia, uno a uno, tutti i giocatori. Bianchi e neri. Uno spot vero per lo sport e per la storia. E per tutti coloro che aspirano ad una futura integrazione. Percio’ credo che proprio questa immagine, a margine dei mondiali di calcio appena conslusi, della finale e della premiazione, di tutti i rumors, i post e i commenti, del bidet, delle palle ovali, dei corsi e ricorsi, degli incubi e delle ossessioni, per il nostro ministro dell’interno, che si affretta a chiudere a richiudere i porti ai barconi dei migranti, risulti la vera sconfitta.

Paolo De Totero

Paolo De Totero

Quarantacinque anni di professione come praticante, giornalista, vicecapocronista, capocronista e caporedattore. Una vita professionale intensa passata tra L’Eco di Genova, Il Lavoro, Il Corriere Mercantile e La Gazzetta del Lunedì. Mattatore della trasmissione TV “Sgarbi per voi” con Vittorio Sgarbi e testimone del giornalismo che fu negli anni precedenti alla rivoluzione tecnologica, oggi Paolo De Totero è il direttore del nostro giornale digitale.

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