La misura tra la vita e la morte è il semplice spessore di un cartone ripiegato. “La sfiga ci vede benissimo” di Gaetano Ferruggia

La scelta del cartone

La sfiga ci vede benissimo – parte prima

Mi svegliai di soprassalto disturbato da qualcosa.
Gli occhi stentavano ad andare a fuoco e in bocca avevo uno sgradevole sapore amarognolo. Mi ci volle qualche minuto per schiarire la mente e realizzare che era ancora buio.
“Ma che ore sono?” pensai. E in automatismo ripescai il mio braccio per guardare l’orologio. Sparito! Strano, eppure non lo tolgo mai dal polso.
Un vecchio orologio di buona marca e di grande valore affettivo. 
E lì, per terra, qualcosa attirò la mia attenzione: il mio portafogli!

La consapevolezza mi attraversò come scarica ad alta tensione: ero stato derubato!

Balzai fuori dal sacco a pelo con facilità, troppa facilità. Era stato tagliato da cima a fondo con un taglierino. Idem le tasche dei jeans, e pazienza per un po’ della mia natica destra, lì avrei rimediato con un cerotto e un po’ di cenere di sigaretta.
 Disinfetta e cicatrizza, come assicura il pronto soccorso fai-da-te.
La conta dei danni fu dura: il sacco a pelo, l’orologio, i jeans, i 40 euro custoditi nel portafogli, il telefonino (per me cordone ombelicale col resto del mondo) e – dannazione! – le scarpe.

Lo confesso, mi misi a piangere. E non per i soldi o per il telefonino e neppure per l’orologio. Piansi per il sacco a pelo: il mio rifugio, la mia casa. Mi chiesi che razza di disperazione ci può essere dietro a chi rapina un disperato.
Almeno mi avevano lasciato il tabacco, grazie al cielo! 
Fumai cercando di stemperare la rabbia e organizzando una soluzione. L’urgenza primaria erano le scarpe, difficile trovarle della giusta misura e in buone condizioni nei centri di distribuzione vestiario.
Mi cambiai i jeans col paio di riserva nello zaino, dopo aver “medicato” il taglio sulla natica. Mi liberai di quelli rotti, assieme (e a malincuore) del sacco a pelo ormai inservibile.
Aspettai fumando che spuntasse il giorno, poi m’incamminai scalzo verso quello che, speravo, potesse essere il mio rimedio.

La sfiga ci vede benissimo – parte seconda

« Ehi! Se sei in cerca di penitenza e conversione, oltre che scalzo dovevi cospargerti il capo di cenere! »
« Be’ don, se proprio ti serve della cenere ne ho un po’ su una chiappa. Se per te vale lo stesso…»

Don Carlo è il vice parroco di Santa Maria della Cella a Sampierdarena, la parrocchia del quartiere dove abitavo.
 Non sono mai stato un cattolico praticante anzi, a dire il vero, non sono mai stato un cattolico. Apprezzo gli insegnamenti di quel rivoluzionario pacifista che fu Gesù, ma sono nato col cuore a sinistra e i dogmi tout-court non hanno mai fatto per me. 
Ma don Carlo è una persona troppo stimolante per concedersi il lusso di ignorarlo: un metro e mezzo di petulante energia, uno che non molla mai. Più somigliante a un grillo parlante che a un prete.
Esauriti i “convenevoli” di rito, venne a sedersi accanto a me sulla panca della sacrestia.

«E allora?» mi chiese.
Gli raccontai la mia disavventura della notte appena trascorsa, e il perché fossi lì, a dormire su una panchina.


«E non potevi farti vivo per tempo, eh? Solo ora che hai bisogno, vieni a bussare a mamma chiesa!»


«Don, l’ha detto il tuo capo che bisogna vestire gli ignudi, mica Bertinotti! Quanto a venire per tempo, conosci la mia presunzione nel voler sempre cavarmela da solo. Ti chiedo solo un po’ di denaro per comprarmi un paio di scarpe e ricominciare a cercare il bandolo della matassa per uscire da ‘sta situazione. Magari te li rendo».

«Ma va a..! Ossignore, con te finisco per dire spropositi anche io! Sai che soldi non ne do ma se vai nel tal negozio, faccio una telefonata e lì troverai le tue scarpe. Ora devo prepararmi per la funzione del mattino, ma tu aspetta qui ancora qualche minuto».
Lo salutai con un grazie, lui con una benedizione e una scrollata di capo. 
Dopo un po’ mi si avvicinò una donna anziana, la perpetua, e senza dire una parola mi mise in mano 10 euro e un biglietto col numero di telefono e l’indirizzo del Centro Vicariale d’ascolto della zona.

La sfiga ci vede benissimo – ultima parte (o quasi). 

Affrontare la vita con un paio di scarpe nuove mette ottimismo e rischiara le idee. 

Andai al lavoro, giustificai il mio ritardo e presi permesso per il resto della giornata, passando dal mio stipetto dov’era custodito il mio PC portatile in attesa di tempi migliori.
 A lui avevo affidato le mie pretese di umile scribacchino dal mestiere rubato, per soddisfare il mio ego ipertrofico e fingermi uno scrittore. Ci si rimorchia abbastanza bene.
 Riuscii a venderlo, non senza fatica, per 200 euro. Se penso che solo due anni prima mi era costato quasi cinque volte tanto… beh, pazienza! Di necessità, virtù.
 Quei soldi mi erano necessari per l’acquisto di un telefonino di modico prezzo.
 Ristabilito il contatto col resto del mondo e soprattutto con la mia apprensiva nonché cardiopatica e diabetica madre, mi restavano in tasca 150 euro.
 Decisi di consolarmi dalle mie sventure, concedendomi il lusso di un pasto a menù turistico. Restavano 135 euro a saldo.
 Il prossimo acquisto prefissato era un orologio: un ottimo simil-Rolex in pura plastica trasparente, made in China, 5 euro.

 Così, accessoriato di tutto, me ne andai a Santa Margherita per rimediare un nuovo sacco a pelo.
 Già che ero in zona optai per una “ricca” cena alla mensa di Rapallo, dove Don Luigi fa del suo meglio per mantenere le tre forchette sulla guida Michelin dei clochard. Decisi infine che sarei ritornato al Grand Hotel delle Palme per la notte.
 Non avevo fatto i conti con la ben nota Legge di Murphy o, se siete convinti autarchici, con quella del Menga: “Le brutte sorprese non arrivano mai sole!”. 

Appesa alla porta del Grand Hotel, una catena con un vistoso lucchetto ed un’ancora più vistoso cartello: “Per motivi d’igiene, la sala d’aspetto rimarrà chiusa dalle ore 20 alle ore 6. Ci scusiamo con i viaggiatori”.

 Nell’atrio della stazione trovai qualche vecchio avventore e il mio amico.


«Ma che è successo?» chiesi.

Bah! Antonio il napoletano, ha rimediato un paio di forbici e un pettine e ha aperto bottega da barbiere. Per pochi spiccioli e qualche sigaretta, acconciatura alla moda! C’erano capelli da tutte le parti»
mi disse ridacchiando.
«E ora?»
« E ora ci si sposta qui, nell’atrio. Oppure sulle panchine fuori»
.

Panchine? No grazie, abbiamo già dato! pensai, e gli raccontai della mia disavventura della notte precedente.

 Decisi così di optare per la sontuosa dependance dell’Hotel: l’atrio della stazione.

 Ma la Legge di Murphy è implacabile, come saprete ben presto…

Fabio Palli

Spirito libero con un pessimo carattere. Fotoreporter in teatro operativo, ho lavorato nella ex Jugoslavia, in Libano e nella Striscia di Gaza. Mi occupo di inchieste sulle mafie e di geopolitica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *