Mi ricordo… di Stefano Verardo

Mi ricordo…

Mi ricordo che non mi ricordo, ovvero il mio più antico ricordo, esclusa la carta da parati della mia cameretta che dava sul verde ed era popolata da tanti piccoli orsetti, la prima istantanea del mio passato depositata nel mio subconscio,  mi è stata raccontata. Avevo all’incirca due anni, di lì a poco avrei cominciato a frequentare l’asilo dell’obbligo.
Mi trovavo in vacanza con i miei genitori a Venezia e di quel viaggio mi resta nella memoria una diapositiva: io in qualche campiello che gioco con una macchina fotografica giocattolo, di plastica verde pistacchio e nera.
L’oggetto, anche se del 1980, probabilmente proveniva già da qualche industria dell’estremo oriente (andava forte Taiwan).
Il suo funzionamento era banale: si pigiava il tasto e al suo interno, nell’obiettivo, si alternavano le immagini di quattro o cinque monumenti di Venezia, stampati su di un nastro di cartone.

Ma il ricordo-racconto non è questo ma quello che segue.
Durante la cena nel ristorante dell’albergo, così mi raccontarono più volte durante l’infanzia i miei genitori, dopo aver mangiato una trota dall’alto del mio seggiolone, venni cortesemente interpellato dal cameriere.
I camerieri son noti per non lesinare attenzioni, fa parte del loro mestiere.
Il poveretto ritirando il piatto mi chiese: ”Com’era il pesce?” e io risposi: “Morto”.
La mia risposta provocò l’ilarità generale della sala, enfatizza mia madre nel racconto.
Ero già cinico e pragmatico in infanzia? O forse erano i miei geni genovesi che non volevano tradire il proprio disilluso DNA?
Chi lo sa, agli psicologi o alle macchie di Rorschach l’ardua sentenza.
Io ora mi trovo distante da Venezia 395,9 chilometri, da quel ricordo sono passati 38 anni e di trote non ne mangio più.

E poi mi ricordo il tempo andato sprecato, mangiato, quello odiato, buttato, ma l’esser stato bambino per mia fortuna è un ricordo di gioia.
Giocare al pampano e inseguire Bobo, un danese gigante dal manto color crema di caffè, detto da me e i miei cugini: Il Super Cane Inglese.

Mi ricordo di quando con la famiglia di mio padre si saliva tra le risate la via del bosco, mentre con un bastone immaginavo di fare il soldato e sfidare i Tedeschi come Clint Eastwood in “Dove osano le aquile”, si arrivava al castagneto e cominciava la raccolta sotta la guida della nonna Margherita, animo piemontese e profilo da zingara.

Mi ricordo il nonno Arturo il partigiano che mi veniva a prendere a scuola a mezzogiorno con la sua 127 gialla, non ero ancora salito in macchina che un pezzo di pizza mi finiva in bocca.
I pomeriggi passati tra buste di soldatini e videogiochi da 200£ a partita in quella che non era ancora l’ARCI e che fieramente a Pegli tutti chiamavano: La Casa del Popolo. Mio nonno, che sponsorizzava tutti i miei vizi infantili, era di certo il mio preferito e lo resta ancora.

E poi correre sui prati e per i sentieri ancora curati, da operai in pensione che prima della guerra erano contadini e finito l’obbligo della fabbrica erano tornati alle loro terre.
Giocare a nascondino, nei dintorni del campo da bocce che sarà spazzato via dall’alluvione del 1993.

Ma soprattutto giocare con la fantasia come non sono più riuscito neanche in preda all’LSD.
Un mondo rurale poco discosto dal mare, in odore di campagna ma sempre all’ombra di Genova città, vissuta per chi abita a Ponente come un’altra realtà.
Mi ricordo quando per la prima volta incrociai lo sguardo con due ragazzi di colore. Ero con mia madre e la sua amica Luana e sui giornali non si parlava di integrazione. A Sampierdarena, neofiti dell’odio rinati leghisti, dipingevano notte tempo sulla carreggiata, parallelo al marciapiede, un passaggio pedonale riservato ai terroni.
Io chiedevo ingenuamente, che significa terroni? Ma questa è un’altra storia.
Come dicevo mia madre e la sua amica mi avevano portato con loro in centro per far shopping, avrò avuto sì e no sette anni, al ritorno dalle vetrine ci imbarcammo a Caricamento su di un rassicurante e traballante mezzo AMT, faceva caldo, era estate ed io mi gustavo un dissetante ghiacciolo, mi misero a sedere su quei sedili rivolti verso l’interno e mia madre e la sua amica si misero nei posti di fianco.
Appena prima di partire salirono sul bus due giovani ragazzi di colore e io rimasi come scioccato, imbambolato a guardarli, manco fossero stati degli alieni o personaggi magici da mille e una notte. Dopo alcuni istanti che mi parvero un’eternità quelli si misero a ridere e mia madre e Luana insieme a loro. Io mi trattenni ancora un poco e, dalla meraviglia per il diverso, passai alla risata per essere stato canzonato.

Mi ricordo che son nato nel 1978 nel periodo in cui Aldo Moro veniva rapito e poi ucciso dallo Stato, ah no ricordo male, dalle BR giusto?

Mi ricordo che son stato bambino in un altro mondo: dove Beppe Grillo era solo un comico e alle feste dell’Unità si parlava come si facesse parte di una grande famiglia.

Mi ricordo il mercatino di Shangai in Piazza S.Elena e i negozi di Via Prè che per me e il mio amico Adriano rappresentavano la Portobello Road nostrana. Noi due, adolescenti veramente out, che mentre ascoltavano i Nirvana cercavano di rivivere gli anni ’60, dal look agli spinelli, freakettoni anni ’90 carichi di idealismi e illusioni, in preda alle loro pulsioni.
I vicoli ci sembravano la California e durante le nostre passeggiate pomeridiane sfioravamo Bob Quadrelli che cantava e resisteva alla rivolta anti stranieri, tanto per cambiare.

E poi, come capita spesso, la concretezza ha ucciso l’aspettativa e anche l’adolescenza è finita.
Bastava scappare in Praglia, in sella al mio truccatissimo 50cc, per staccare e non lasciarsi affondare.

Quindi ho deciso di ricordare fino a quando non mi son fatto troppo male. Come quando dopo aver visto per un centinaio di volte Easy Rider ho deciso di farlo terminare prima della morte di Jack Nicholson, quando i tre compagni di viaggio si addormentano fra risate attorno a un fuoco.

Mi ricordo che dovevo scrivere di meno,”La sintesi Verardo! La sintesi è importante!”  mi diceva il Prof. Aldo Guerra, mentre teneva incollata fra le dita un’interminabile sigaretta, che fumava in aula, mentre recitava con il cuore ogni prosa e ogni poesia, per una classe di geometri ignoranti, ai quali lasciava sempre uno spiraglio: “Anche per voi c’è speranza, Quasimodo da geometra autodidatta è arrivato a meritarsi il Nobel alla poesia”.

Mi ricordo che devo ricordare o tutto questo non avrà mai un senso.

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