“Io non sono razzista, ma…”

razzista m. f.     Chi non tollera etnie ai di fuori della propria

Questo luogo comune si presenta come un espediente retorico che partendo da una premessa formale, scarica tutto il significato sulla seconda parte.
“Io non sono razzista, ma adesso (i migranti) rappresentano una minaccia” o altre forme di questo tenore che oggi sentiamo molto spesso nei discorsi al bar o per strada rappresentano una sostanziale incapacità o non volontà a rapportarsi con un fenomeno, quello dell’immigrazione, che a fronte di oggettivi problemi rappresenta anche una possibile risorsa per il mondo occidentale.

Per comprendere la frase dobbiamo fare, come sempre, un passo indietro. Per chi è nato nel dopoguerra in Italia la parola “razzismo” era confinata a un grande immaginario ideale delimitato dal Pantheon di personaggi leggendari che contro il razzismo avevano lottato: Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela tutte figure che nobilitavano un sistema di idee che dalla fine della seconda guerra mondiale aveva dovuto fare i conti con le odiose leggi razziali del fascismo e le significative collaborazioni avvenute tra italiani e tedeschi per la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio.
La mia generazione è cresciuta all’ombra del monito dei mostri sacri che citavo, ma anche nella ferma indicazione che quel pensiero, quelle idee, quelle discriminazioni non avrebbero mai più fatto parte della nostra cultura.

Oggi, nonostante tutto, è palese che si sta manifestando un’inversione di tendenza che avviene con dinamiche dialettiche non lineari, utilizzando espedienti formali come la sicurezza, il rispetto della legge, l’incolumità (loro) e addirittura, in certi casi, rovesciando l’avversione in un forma di “pelosa” solidarietà “Non sono razzista, ma quello che avviene non è soccorso ma l’immissione di schiavi per abbattere il costo del lavoro delle aziende”.
Insomma, una vera e propria sofisticazione della parola “razzismo” che per chi pronuncia la frase diventa una premessa, paradossale, per esprimere un disvalore, se non addirittura un vero e proprio insulto.
Perché è successo tutto questo? Non è che fingendo di non esserlo stiamo diventando, effettivamente, razzisti?

Quando da bambino guardavo la tv avevo la sensazione che tutto quello che vedevo attraverso lo schermo fosse a portata di mano, raggiungibile, se non proprio in quel momento lì, almeno un giorno, quando sarei diventato grande quello era il futuro che mi aspettava e mi spettava.
Oggi, onestamente, non è più così: quello che si vede alla tv è soltanto una fonte di crescente insoddisfazione, quello che mi viene proposto è molto spesso al di fuori della mia portata e tutto ciò genera in me frustrazione e anche un po’ di rabbia.
Perché è avvenuto questo cambiamento non me lo spiego, ma è evidente che c’è qualcosa di invisibile che minaccia il nostro benessere e lo intacca.
La percezione, anche se non accade nulla di particolarmente pericoloso, è che la mia sicurezza sia messa in pericolo e l’elemento macroscopico è rappresentato dalla presenza dei migranti. A fronte di un sistema complesso, a volte indecifrabile, che insidia le nostre finanze, il potere d’acquisto del nostro stipendio (se lo abbiamo), che ci toglie il lavoro cosa c’è di più semplice, piuttosto che cercare di risolvere problemi inestricabili e magari renderci “scomodi” in un sistema che non ammette la nostra infelicità, identificare nello straniero e nel “diverso” la causa di tutti i guai? Le pulsioni di rabbia e sconforto sembrano sintetizzarsi nel grottesco e un po’ irreale slogan “Prima gli italiani” che denuncia un’enorme difficoltà reale del vissuto quotidiano, a fronte della percezione che siano solo gli immigrati ad essere aiutati, quando, in realtà, molta di questa gente, compresi donne e bambini, hanno trovato la morte in mare senza essere stati soccorsi oppure languono nelle carceri libiche tra le mani di aguzzini senza pietà.

Essere razzisti oggi in Italia è più facile che dire di essere infelici, per questo si rischia di esserlo. È più semplice odiare piuttosto che provare a capire le ragioni della propria e generale infelicità e lavorare e lottare per non esserlo.
Pensateci, se avete la necessità di una premessa, vuol dire che c’è già qualcosa che non va.

Per terminare il bellissimo discorso di Charlie Chaplin ne “Il grande dittatore” registrato negli anni ’40, ma come potrete sentire ancora estremamente attuale.

Giovanni Giaccone

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